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EDITORIALE

La povertà vera è innamoramento di Cristo

Dieci anni fa, il 5 giugno 2007, festa del Corpus Domini, moriva padre Fulvio Giuliano, missionario del Pime in Brasile per 23 anni prima di tornare nel 1985 in Italia a causa di una grave malattia congenita. Chiunque lo abbia conosciuto, in Brasile come in Italia, può testimoniarne la tensione costante alla santità. Per l'attualità del tema vi proponiamo un breve passaggio sul significato della povertà. 

Editoriali 05_06_2017
Padre Fulvio Giuliano

Dieci anni fa, il 5 giugno 2007, festa del Corpus Domini, moriva padre Fulvio Giuliano, missionario del Pime in Brasile per 23 anni prima di tornare nel 1985 in Italia a causa di una grave malattia congenita. Fu proprio in quel frangente che ebbi la grazia di conoscerlo e poi scoprire con lui il significato dell’amicizia. Ebbi subito modo di verificare la fondatezza di quella fama di santità che lo precedeva.
La sua vita era sintetizzata nella frase di san Gregorio di Nissa, che aveva scritto su un foglio appeso fuori dalla porta della sua stanza, prima nei seminari teologici di Milano e Monza – dove era direttore spirituale - e poi nella casa di Nervi: «Christi sumus, non nostri».
Con questa coscienza aveva sempre obbedito alle circostanze, riconoscendo in queste la volontà di Dio. Così era partito per Macapà nel 1962, invitato in quanto perito edile dal vescovo monsignor Aristide Pirovano, missionario del Pime: doveva restare tre anni per seguire la costruzione di un ospedale sulla foce del Rio delle Amazzoni, ma quella esperienza divenne definitiva. Divenne sacerdote diocesano, rispondendo a una proposta del vescovo Giuseppe Maritano, poi allo stesso modo entrò nel Pime. Infine, con la stessa letizia e lo stesso abbandono ha vissuto per oltre venti anni in Italia crescenti sofferenze fisiche fino alla morte a soli 68 anni.
Il suo modo naturale di esprimersi era la pittura, una passione che lo accompagnava fin da piccolo e che ha vissuto diverse fasi fino ad arrivare a concentrarsi esclusivamente sulle icone. Ne ha dipinte centinaia, oggi diffuse in tutti i paesi di missione e anche presso le case del Pime di Milano e Monza (qui il video con le icone conservate a Monza), un amore tale da fondare anche una scuola di iconografia negli ultimi anni a Nervi.
Alcune delle sue testimonianze si possono leggere qui, ma per ricordarlo vorrei proporre, per la sua attualità, un breve passaggio sulla povertà tratto da una lunga conversazione che ebbe con me all’inizio degli anni ’90, in cui raccontava la sua storia. Il testo integrale della conversazione è contenuto in un volume (“Lo specchio del divino”) che racconta la sua opera pittorica, e curato dal suo fratello gemello Franco. (Riccardo Cascioli) 

 Padre Fulvio Giuliano, particolare di Via Crucis

Non si può parlare di povertà se prima non c’è una scelta chiarissima per Cristo; altrimenti si cade subito nell’ambiguità. La povertà quindi è innanzitutto questo innamoramento di Cristo. Se l’uomo non è innamorato di Cristo, non ha scelto veramente Cristo, è difficile che la sua scelta di povertà sia limpida: a lungo andare non tiene. Questo l’ho visto con i miei compagni di seminario in Brasile (era il 1968, ndr), con quei compagni che avevano la bocca piena di povertà, di stare con il popolo. Poi, dopo un po’, abbiamo visto come sono scivolati via e la maggior parte di loro si sono imborghesiti, oltre ad essersi sposati con le povere.

La povertà è un segno molto chiaro per la gente, anche se per noi non sempre deve essere messa in primo luogo. Il popolo, che vive una povertà contingente, tutti i giorni, quello che nota subito è se vivi in povertà. E questo è importante non dimenticarlo.

Ma per noi che abbiamo scelto Cristo, la prima cosa è l’obbedienza; poi c’è la castità e infine la povertà, in terzo piano. Perché questa gerarchia? Perché se non c’è prima l’obbedienza al Signore, non ci può essere nemmeno castità e il resto; ognuno fa quello che vuole.

Obbedienza a Cristo, cioè una libertà totale, proprio consegnare la mia volontà nelle mani di Dio. Poi verrà la libertà del cuore (la castità) e poi la libertà davanti alle cose (la povertà). Questa è la gerarchia dei valori per uno che ha scelto Cristo.

La mia vocazione stessa è un esempio di come la vita sia un’obbedienza. Non è che io dico “Voglio fare il prete”: ho seguito quello che il Signore mi ha fatto vedere, l’obbedienza è un cammino che si sviluppa continuamente. Mi è stato chiesto di andare in Brasile, sono andato; fare il soldato, sono andato. Non è lo sviluppo di un progetto – voglio fare questo, voglio fare quello – ma sempre un’obbedienza. Per me tutto ciò che ho fatto nella vita è stato sempre per obbedienza. E questo mi ha dato una grande serenità, anche se a volte mi è costato fatica. L’obbedienza è veramente dura ma, in fondo, ti dà una grande serenità nel cuore perché hai fatto tutto quello che ti ha chiesto Dio: se Dio me lo ha chiesto, è vero! È bello!