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CRISI E OLTRE

La ripresa? "Dipende solo dall'imprenditore"

A settembre si inizierà a vedere la ripresa dell’economia italiana. Lo promette il premier Matteo Renzi. Sarà vero? Il professor Paolo Preti spiega a La Nuova BQ che il 30-40% delle aziende si è trasformato ed è addirittura rafforzato dalla crisi. E nonostante le tasse. Questa è una fase di passaggio, non di crollo. E quando la ripresa ci sarà, la dovremo agli imprenditori migliori.

Economia 06_09_2016
Paolo Preti

Ad agosto siamo stati in vacanza, ma a settembre si inizierà a vedere la ripresa dell’economia italiana. E sarà una ripresa “col botto”. Lo promette il premier Matteo Renzi nelle sue ultime dichiarazioni a Palazzo Chigi. Però i dati Istat registrano una crescita zero nel secondo trimestre del 2016. Allora, chi ha ragione? In Italia ci sono le condizioni reali per una ripresa (con o senza botto)?

La Nuova Bussola Quotidiana ne parla con il professor Paolo Preti, docente di Organizzazione Aziendale presso l’Università della Valle d’Aosta e direttore del Master piccole imprese della Sda Bocconi di Milano. “Innanzitutto Istat deve rivedere il suo modello econometrico, la tecnica con cui formula gli indici della nostra economia, che negli ultimi dieci anni è profondamente cambiata. Se misuriamo l’andamento dell’economia italiana in termini di produttività (numero di ore lavorate, di unità prodotte, ecc…) rischiamo di avere dei dati negativi che però non riflettono pienamente la realtà. Faccio un esempio eclatante: se vendiamo sempre più Ferrari e meno utilitarie Fiat, non vuol dire che ci sia una recessione, perché le Ferrari le vendiamo a un valore unitario sempre maggiore. Lo stesso discorso si deve fare sui servizi: noi ne vendiamo sempre di più qualificati (progettazione, brand…) e meno di non qualificati (come i call center). Diminuisce la quantità dei lavoratori impiegati, ma il Pil aumenta sulla qualità”.

Anche sull’occupazione c’è discrepanza fra i dati del governo (che parla di una riduzione della disoccupazione) e quelli di Istat (che registra un lieve calo del numero di occupati). Chi ha ragione?

Il governo gioca un po’ sulle parole, in questo caso. Perché oltre a occupati e disoccupati c’è anche una terza categoria: quelli che cercano lavoro. Diminuiscono i disoccupati in senso stretto, perché i disoccupati hanno più fiducia di trovare un nuovo posto e riprendono a cercare. Nel momento in cui riprendono a cercare, rientrano nella categoria della forza lavoro. E su questo Renzi ci gioca, ma io tenderei a dar ragione all’Istat, perché l’occupazione reale è diminuita, anche se di poco.

Al netto dell’imprecisione di queste metodologie statistiche, la situazione è meno buia di quel che si pensi?

Direi di sì, non è così drammatica. Farei una media fra quel che dice il governo (che ha in vista importanti appuntamenti politici) e l’Istat per capire dove sta la realtà. Noi stiamo comunque commentando i valori del secondo trimestre. Nel terzo, di questo sono quasi certo, torneremo a vedere valori migliori. Perché il turismo estivo (e l’Italia vive di turismo) porterà grandi numeri positivi. Ci vuol soprattutto prudenza, se vogliamo capire come vanno le cose: mezzo punto in meno non ci deve far gridare alla catastrofe, mezzo punto in più non è sufficiente per parlar di trionfo. Questi dieci anni sono stati tutt’un succedersi di segnali positivi e negativi: siamo in una fase di passaggio.

Dopo questi dieci anni, si può dire che le cause della crisi siano più esterne o interne?

Per quanto riguarda le aziende (non i conti pubblici), le cause sono assolutamente esterne. Le nostre aziende hanno pagato il crollo delle esportazioni, dovuto alla crisi scoppiata nei paesi che compravano da noi. Poi è arrivato il credit crunch, causato da una crisi finanziaria internazionale. Nonostante questo, le imprese italiane hanno saputo reagire in modo estremamente positivo, cambiando il loro modello di business. Oggi possiamo ben dire che dal 30 al 40% delle aziende italiane si è rafforzato. Soprattutto le piccole e medie imprese hanno dovuto trasformarsi, puntando alla qualità sulla quantità, dal mercato interno alle esportazioni, dai prodotti standard ripetitivi alla ricerca di innovazione di prodotti “tailor made”, fatti su misura per il cliente. Abbiamo un altro 20% di aziende che non ce la fa. Il rimanente è una zona d’ombra di imprenditori che potrebbero crescere, ma sono ancora in fase di cambiamento. Noi dobbiamo aiutare soprattutto questo terzo gruppo di imprese. E’ compito dei docenti, dei media e delle associazioni di categoria, presentare gli esempi vincenti agli imprenditori che vogliono il cambiamento.

In quali settori troviamo queste aziende virtuose?

Il successo e l’insuccesso sono assolutamente trasversali. Prendiamo ad esempio l’industria vinicola: è un settore assolutamente di successo, cinque miliardi di esportazioni, Vinitaly di Verona è la prima fiera del mondo ed è in crescita. Eppure ci sono aziende che falliscono. Altro esempio: l’industria del mobile. Il Salone del Mobile di Milano, il design Made in Italy hanno un grande successo mondiale, ma i mobilifici veneti e brianzoli sono in crisi nera. E’ un fenomeno trasversale, dunque, il risultato è positivo o negativo a seconda di come agisce il singolo imprenditore, in qualunque settore o in qualunque zona del paese operi. Professori, giornalisti e rappresentanti di categoria devono rivalutare la figura dell’imprenditore. Perché è l’imprenditore che fa la differenza, non altro.

Anche se sull’impresa grava una tassazione superiore al 60%?

Questo è il vero problema. Le imprese si trovano a combattere, non solo la concorrenza esterna, ma anche la pubblica amministrazione. E il livello di pressione fiscale è una delle sue espressioni peggiori. A maggior ragione il nostro plauso deve andare agli imprenditori che ce la fanno, anche a queste condizioni. Chi è veramente capace di fare impresa, ci riesce, pur facendo molta più fatica. Abbiamo aziende di successo in zone del paese dove le strade finiscono, le infrastrutture sono inadatte, le tasse sono alte. Questi ostacoli sono veri. Sottolineo: veri. Ma non devono trasformarsi in alibi. L’imprenditore migliore riesce comunque a sopravvivere ed emergere.