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A 40 ANNI DALLA LEGGE

L'aborto è diritto: triste verità che non attenua la 194

La 194 prevede che l'azienda ospedaliera e quindi il medico debbano fornire l'aborto a chi lo richiede. Se esiste un dovere giuridico, significa che da qualche parte si può predicare un diritto soggettivo.

Editoriali 20_06_2018

Nell’ultimo periodo molti hanno ricordato i 40 anni della 194. Speriamo che siano i primi e gli ultimi. In occasione di questo nefasto anniversario alcuni commentatori di area cattolica hanno rispolverato un doppio refrain che da molti anni ha accompagnato alcune analisi sulla legge stessa: secondo la 194 l’aborto non è un diritto e la 194 è applicata male.

Tentiamo di provare che entrambe le affermazioni sono erronee. Nella 194 l'aborto è configurato come diritto soggettivo almeno per due ordini di motivi. La 194 prevede che l'azienda ospedaliera e quindi in subordine il medico debbano fornire l'aborto a chi lo richiede. Se esiste un dovere giuridico, significa che da qualche parte si può predicare un diritto soggettivo (che il medico debba fornire questo servizio è anche comprovato dall'istituto dell'obiezione di coscienza). In altri termini e rovesciando la spiegazione appena data: se non ci fosse un diritto soggettivo in capo alla donna di abortire non esisterebbe il dovere da parte della struttura ospedaliera di praticare l’aborto.

Secondo motivo: consolidata giurisprudenza ha previsto il risarcimento in sede civile per nascita non voluta. In modo più analitico l’iter che motiva il risarcimento in genere è così disegnato: la donna è stata lesa nel suo diritto a conoscere lo stato di salute del feto e questo suo diritto poggia sul diritto all'aborto. Se non esistesse il diritto all'aborto anche il diritto a conoscere lo stato di salute del feto verrebbe meno. Quindi è errato interpretare la 194 come una legge che indica alcune cause di giustificazione in merito al reato d'aborto, anche perché il reato d'aborto è stato abrogato. Esistono nella 194 alcune sanzioni, ma che non interessano l’aborto in quanto tale, bensì le procedure per abortire. Infatti parte della dottrina si domanda correttamente se queste sanzioni dovrebbero rientrare più nell’ambito del diritto amministrativo che in quello penale.

Passiamo ora al secondo corno del problema: la 194 è stata applicata male, se fosse stata applicata meglio ci sarebbero stati meno aborti. Si sostiene questo facendo riferimento agli artt. 2 e 5 che prevedono strade alternative all’aborto. Come giudizio preliminare e di carattere generale, tale affermazione strappa un sorriso amaro: dato che la ratio della 194, ossia il fine principale di questa legge, è la soppressione dell’innocente, applicare meglio la 194 significherebbe incentivare l’aborto e non certo comprimerne la portata.

Ma entriamo più nel dettaglio e vediamo cosa dicono i due articoli appena citati. La donna che vuole abortire si reca dai consultori, dalle strutture ospedaliere e da un medico di fiducia. I consultori familiari e le strutture ospedaliere  devono informare  la donna sui suoi diritti (ad esempio  sulla possibilità di portare a termine la gravidanza  e non riconoscere il figlio) e sui servizi assistenziali. Inoltre devono chiedere aiuto agli enti locali per portare a termine la gravidanza, ma solo se i primi due interventi sono stati ritenuti inefficaci. Quindi è lasciato alla libera decisione di chi sta nel consultorio interpellare gli enti locali e dunque questa decisione non è un dovere. Consultori e strutture ospedaliere devono poi contribuire a risolvere i problemi che spingono la donna ad abortire. Per soddisfare questo obbligo secondo i termini di legge basta dire alla donna: “Ci rifletta bene”. I soggetti di cui sopra possono avvalersi di associazioni: non un obbligo ma mera facoltà. Infine invitano a soprassedere per 7 giorni, eccetto nel caso di urgenza. Anche in questo caso l’urgenza è lasciata alla libera valutazione degli operatori sanitari.

Se invece la donna decide di recarsi da un medico questi non deve essere necessariamente un ginecologo o il medico di famiglia, ma un “medico di fiducia”, quindi anche un amico dermatologo compiacente può andare bene. Il medico ha meno doveri rispetto a consultori e strutture ospedaliere: informare la donna sui suoi diritti e sugli interventi a carattere sociale.

Veniamo alle critiche a questi due articoli che paiono strumenti dissuasivi alla pratica abortiva, ma sono stati in realtà costruiti per essere inefficaci. Gli oneri indicati dagli artt. 2 e 5 pur essendo astrattamente sanzionabili, sono difficilmente sanzionabili perché sia l’operatore sanitario che la donna vogliono la stessa cosa: abortire. Stanno entrambi dalla stessa parte. Ottenuto l’aborto perché trascinare in giudizio il medico perché non l’ha aiutata a non abortire? Ed infatti, a fronte di quasi sei milioni di interventi abortivi realizzati fino ad oggi, il numero di vertenze giudiziarie nate dal mancato rispetto di questi obblighi sono pari a zero. Non zero condanne, ma zero processi.

Seconda riflessione. L’informativa perde di efficacia perché il personale che la fornisce è pro-aborto. Infatti gli obiettori, per consolidata interpretazione del testo di legge, sono estromessi da tutto l’iter abortivo quindi anche dal colloquio dissuasivo (art. 5 ultimo comma, art. 9. Diverse interpretazioni che permetterebbero ai medici obiettori più ampi margini di manovra hanno avuto sempre scarso successo: ma ben venga il tentativo di riprovarci). E volete che il medico abortista faccia di tutto per persuadere la donna a non abortire?

Dunque, la reale esiguità della portata degli obblighi di legge, l’impossibilità della sanzione in capo agli operatori sanitari che non fanno il loro dovere, il fatto che è il medico abortista a dover dissuadere la donna, fanno sì che la 194 può essere applicata benissimo e nello stesso non inceppare per nulla la macchina abortiva che uccide un bambino ogni cinque minuti. Quindi nella 194 non c’è reale prevenzione all’aborto, non perché gli artt. 2 e 5 vengono applicati male (difetto fenomenologico), ma per intrinseca struttura della 194 (difetto giuridico).

Lasciando da parte l’analisi della 194, ma soffermandoci sulle strategie pro-life, stupisce non poco che si voglia contrastare l’aborto chiedendo di applicare meglio una norma che legittima l’aborto e che quindi si è macchiata del peccato mortale di averlo diffuso ampiamente. E’ come dichiararsi contro la pena di morte e chiedere che l’iniezione letale venga eseguita con precisione. La strategia vincente non deve individuarsi ad intra, ossia nella legge 194, bensì ad extra, cioè indipendentemente dal suo articolato di legge: iniziando - tanto per fare un esempio tra i molti - a chiedere nelle piazze, come ha fatto la Marcia per la Vita, nei media,  etc. che la legge venga abrogata. Perché tra abrogazione e applicazione il divario è netto.