Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
L'INCONTRO IN ALASKA

L'America che odia se stessa, in difficoltà con la Cina

Il primo incontro di alto profilo fra l’amministrazione Biden e la Cina è finito con una rissa verbale. Tenutosi ad Anchorage, ha visto protagonisti i ministri degli Esteri. I cinesi hanno usato contro l'amministrazione Biden i suoi stessi argomenti retorici, accusando l'America di razzismo e di arroganza (quel che i Dems dicevano contro Trump)

Esteri 22_03_2021
Yang Jiechi

Il primo incontro di alto profilo fra l’amministrazione Biden e la Cina è finito con una sorta di rissa in diretta televisiva. Tenutosi ad Anchorage, Alaska, durato due giorni, ha visto protagonisti i ministri degli Esteri e i consiglieri di sicurezza nazionale di entrambe le potenze del Pacifico. La Cina si ritiene vincitrice di questo primo “match” diplomatico, che ha permesso ai suoi esponenti di farsi (dal proprio pubblico) vedere intransigenti con l’avversario. Secondo la stampa statunitense più favorevole all'amministrazione Biden, invece, il franco confronto ha posto le basi per una competizione più sana. L'unico risultato pratico della due-giorni di Anchorage è l'annuncio di un futuro gruppo di lavoro sino-americano sul cambiamento climatico. Probabilmente a Biden basta così, considerando l'importanza prioritaria che attribuisce a questo tema. La delegazione cinese non ha rilasciato dichiarazioni in merito.

Per la Cina era presente, oltre al ministro degli Esteri Wang Yi, anche Yang Jiechi, capo della Commissione Affari Esteri del Partito Comunista. Gli Usa schieravano il segretario di Stato Antony Blinken e il Consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, entrambi funzionari di lungo corso e uomini di spicco già nell’amministrazione Obama. Il terreno di scontro scelto dalla nuova amministrazione è quello dei diritti umani, oltre che di tutte le questioni che Pechino ritiene “interne”, ma che per tutto il resto del mondo hanno una valenza internazionale.

I due esponenti del governo americano hanno deciso di unire le due questioni, parlando dunque della persecuzione dei musulmani uiguri nello Xinjiang, dei buddisti nel Tibet, della violazione dell’autonomia di Hong Kong e infine delle minacce cinesi di Taiwan, dunque due temi (Xinjiang e Tibet) che riguardano i diritti umani e due di politica internazionale. Su queste vicende, le azioni cinesi sono state fermamente condannate: “Ognuna di queste azioni minaccia un ordine internazionale fondato sulle regole che è l’unico che possa preservare la stabilità globale”, ha affermato Blinken. Al centro della condanna americana anche la minaccia alla cyber sicurezza statunitense, di cui si accusano gli hacker cinesi. E le sanzioni economiche che la Cina sta imponendo ad alleati statunitensi, come l’Australia. “Ecco perché non sono solo questioni interne – ha dichiarato il nuovo segretario di Stato – e perché ci sentiamo obbligati a sollevare tali questioni oggi”. La Cina ha intrapreso “un assalto ai valori fondamentali”, ha rincarato la dose Jake Sullivan, “Non cerchiamo il conflitto, ma siamo pronti ad una rigida competizione”

Le regole del primo incontro, alla presenza dei giornalisti, prevedevano due minuti di discorso a testa. I due americani li hanno rispettati. Appena Yang Jiechi ha preso la parola, invece, non l’ha mollata più per 16 minuti. Uomo di Partito più che di diplomazia, Yang è partito con una filippica a tutto tondo contro gli Usa, cercando di colpirli e di umiliarli in casa loro: “Credo che la stragrande maggioranza dei Paesi del mondo non riconosca i valori universali sostenuti dagli Stati Uniti, né che le opinioni degli Stati Uniti possano rappresentare l’opinione pubblica internazionale”. Per quanto riguarda l’ordine internazionale, fondato sulle regole citate da Blinken: “Questi Paesi non riconoscono che le regole stabilite da un ristretto numero di persone possano servire come base per l’ordine internazionale”. Approfittando della crisi istituzionale creatasi nelle ultime elezioni presidenziali, il comunista cinese ha sferrato anche un colpo all’ordine interno americano: “È importante per gli Stati Uniti cambiare la loro immagine e finirla di promuovere la loro democrazia nel resto del mondo. Anche molte persone negli Stati Uniti, in realtà, hanno poca fiducia nella democrazia Usa”. E approfittando di tutte le proteste anti-razziste di Black Lives Matter, Yang (esponente di un Partito che sta deportando milioni di persone per motivi etnici e religiosi) si è spinto fino a ribaltare l’accusa sui diritti umani: “Speriamo che gli Stati Uniti faranno meglio sui diritti umani. La Cina ha compiuto progressi costanti e il fatto è che ci sono molti problemi negli Stati Uniti per quanto riguarda i diritti umani, cosa che è ammessa anche dagli Stati Uniti stessi. (…) E le sfide che gli Stati Uniti devono affrontare in materia di diritti umani sono profonde. Non sono emerse solo negli ultimi quattro anni, come Black Lives Matter. Non è emerso solo di recente”.

Blinken ha cercato di parare il colpo, con una lezione da politologo: tratto distintivo della democrazia, a suo dire, è “riconoscere le nostre imperfezioni, riconoscere che non siamo perfetti, commettiamo errori, facciamo passi indietro. Ma quello che abbiamo fatto nel corso della nostra storia è affrontare queste sfide apertamente, pubblicamente, in modo trasparente, non cercando di ignorarle, non cercando di fingere che non esistano, non cercando di nasconderle sotto un tappeto. E a volte è doloroso, a volte è brutto, ma ogni volta ne siamo usciti più forti, migliori, più uniti come Paese”. Una lezione che potrebbe convincere degli studenti universitari non politicizzati. Ma che non ha fermato affatto la furia montante di Yang. Che ha risposto: “Bene, è stato un mio errore. Quando sono entrato in questa stanza avrei dovuto ricordare agli Stati Uniti di prestare attenzione al loro tono nei nostri rispettivi discorsi di apertura, ma non l’ho fatto”. E “Quindi lasciatemi dire qui che, di fronte alla parte cinese, gli Stati Uniti non hanno la qualifica per parlare alla Cina da una posizione di forza. E non l’avevano nemmeno venti o trent’anni fa, perché non è questo il modo di trattare con il popolo cinese”.

Questo franco scambio di battute riassume bene i termini della contesa fra Usa e Cina, non da adesso, ma, appunto, da venti o trent’anni, nel mondo post Guerra Fredda. La Cina cerca rispetto internazionale, vuole un ordine internazionale multi-laterale per imporre la sua egemonia in Asia. La Cina è dunque una potenza revisionista del XXI Secolo. Gli Usa cercano, al contrario, di mantenere una posizione di egemonia globale per preservare l’ordine legale creato dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Il tallone d’Achille degli Stati Uniti non è militare, ma è l’insicurezza nel proprio sistema. Gli ultimi quattro anni sono stati visti dalla Cina come un declino della potenza americana: la guerra dei media a Trump, poi il caos creato da Black Lives Matter, la rivoluzione culturale nelle università, la furia iconoclasta contro i simboli della civiltà occidentale, il disastro delle elezioni presidenziali che metà elettorato ritiene ancora rubate dall’attuale presidente. Sono tutti segni di debolezza agli occhi di una dittatura. E non sono solo “affrontare queste sfide apertamente, pubblicamente, in modo trasparente” come dice Blinken, ormai è una guerra civile latente, causata proprio da quel mondo progressista, ora al governo (di cui Blinken stesso fa parte) che fonda la sua legittimità sulla condanna dei valori giudaico-cristiani, della tradizione occidentale, della storia americana. Questo è un chiaro fattore di debolezza, non è un modo “per uscirne più forti, migliori, più uniti come Paese”. Con che voce gli Usa possono difendere i diritti umani dei cristiani, dei buddisti e dei tibetani in Cina, nel momento in cui un forte movimento progressista ritiene che gli Usa li stiano violando in patria, a causa del loro “razzismo sistemico”? Come sarà possibile arginare l’anti-americanismo all’estero, dal momento che i più feroci argomenti anti-americani sono tutti formulati e diffusi dalle università statunitensi? Questa sarà la vera sfida dell’amministrazione Biden: prima ancora che con la Cina e con altri avversari internazionali, dovrà vedersela con se stessa.