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GOVERNO E OPPOSIZIONI

Leghisti anti-Lega: produttori contro il Decreto Dignità

Dal 3% a primo partito di centrodestra: è il "miracolo" Salvini. Ma tanto rapidamente ha guadagnato consensi, altrettanto rapidamente li può perdere a causa dell'alleanza con M5S. Il Decreto Dignità non è stato digerito dai ceti più produttivi del Nord, zoccolo duro dell'elettorato.

Politica 01_08_2018
Di Maio e Salvini

Matteo Salvini ha realizzato un piccolo grande miracolo, portando una Lega moribonda, scesa al 3%, all’exploit del 4 marzo scorso (primo partito del centrodestra). Passare dal 3 al 17% dei consensi in pochissimi anni è stata un’impresa che l’attuale Ministro dell’Interno può legittimamente intestarsi. Senza contare che i sondaggi accreditano oggi il Carroccio di un 30% dei consensi. In soli due mesi di azione di governo la Lega ha registrato un’impennata senza precedenti, almeno per quanto riguarda le intenzioni di voto, superando o quanto meno tallonando perfino i Cinque Stelle.

La linea risoluta di Salvini in materia di migranti gli sta certamente portando un gradimento elevatissimo. La sua posizione è largamente condivisa anche tra gli elettori cosiddetti moderati, che ritengono troppo remissiva la condotta tenuta dai precedenti governi in tema di contrasto all’immigrazione clandestina. Detto questo, però, c’è anche il rovescio della medaglia. Come li ha velocemente guadagnati quei voti, così repentinamente il vicepremier rischia di perderli. Perché? Per alcune evidenti ragioni.

Anzitutto perché il contenuto del Decreto Dignità non è per nulla apprezzato dalla base leghista, soprattutto al nord. La parola “nord” è stata eliminata dal nome della Lega, proprio per assecondare il disegno di nazionalizzazione del partito, che sta cercando di sfondare anche al sud. Ma si sa che i ceti produttivi e imprenditoriali sono concentrati soprattutto al nord, e quando decidono di far sentire la loro voce lo fanno per davvero. Confindustria, Unioncamere, Assindustria, Confartigianato continuano a far risuonare da settimane la loro protesta contro le linee guida di quel provvedimento che, a detta loro, rischia di deprimere l’economia. L'epicentro della rivolta è sempre più il Veneto, dove la pressione di oltre 600 imprenditori sulla Lega cresce di intensità giorno dopo giorno. Lo stesso governatore veneto, Luca Zaia si sente tra l’incudine e il martello ma non può non sottolineare le criticità, i rischi e le negative conseguenze occupazionali legate all'applicazione del decreto dignità, già ribattezzato polemicamente da molti imprenditori “decreto disoccupazione”.

In linea teorica, Salvini dovrebbe difendere maggiormente gli interessi degli elettori del Nord, che gli hanno confermato il voto dopo aver constatato il buon governo di Zaia e Maroni. L’altro vicepremier, Luigi Di Maio è invece più proteso a difendere gli elettori del Sud, incantati dalle promesse di aiuti e sostegni in regioni dove la disoccupazione è alta, soprattutto quella giovanile.

Ma quanto potrà resistere questo patto di governo, visto che gli interessi difesi dagli uni e dagli altri sono palesemente confliggenti tra loro? I Cinque Stelle finora hanno attinto “carburante” in termini di credibilità affidandosi a gesti plateali che parlano alle pance rabbiose (brindisi per la legge sui vitalizi, annullamento leasing Air Force voluto da un Renzi con la mania di grandezza, annunci di tagli e risparmi cospicui). Come già evidenziato, il credito presso gli elettori Salvini se l’è invece guadagnato soprattutto per il pugno duro sui migranti, mentre il compromesso sulle nuove norme in materia di lavoro rischia di danneggiarlo, alienandogli la fiducia degli imprenditori, soprattutto quelli del nord.

Sono in prevalenza elettori di centrodestra che hanno deciso di puntare su un leader giovane (Salvini) anziché su uno ormai, anche anagraficamente, sul viale del tramonto (Silvio Berlusconi). Ma si attendevano dalla Lega analoga sensibilità rispetto alle loro ragioni e ora paiono un po’ delusi. Tanto che, nelle ultime settimane, lo stesso leader di Forza Italia sta avendo buon gioco nell’ergersi nuovamente a paladino delle istanze di aziende, produttori, lavoratori, artigiani, commercianti, agricoltori, "che non hanno davvero bisogno di altre difficoltà da aggiungere alle tante con cui combattono ogni giorno".

Ma se gli imprenditori veneti sono sul piede di guerra per un decreto dignità che definiscono ideologico, sbagliato e punitivo nei loro confronti, i loro colleghi piemontesi sono altrettanto preoccupati di fronte all’ipotesi, che definiscono “sciagurata”, di bloccare la Tav. Senza dimenticare il nodo Tap, vale a dire il gasdotto adriatico fondamentale per la sicurezza energetica del Paese. Il “partito” del “no a quasi tutto”, che vanta moltissimi adepti soprattutto nelle file pentastellate, non fa proseliti tra i ceti produttivi, che al contrario ritengono essenziali le infrastrutture, i grandi eventi, lo sviluppo dei territori e del Sistema Paese nel suo complesso.

Ma Salvini rischia anche per un’altra ragione. Punta a fagocitare Forza Italia, contando sulla sponda del governatore ligure, Giovanni Toti, sempre più in rotta di collisione con i vertici di Forza Italia. Però non è detto che gli elettori capiscano. La Lega si è comunque presentata al voto politico del 4 marzo in alleanza con Forza Italia e Fratelli d’Italia e, se ora facesse un’alleanza organica con i Cinque Stelle, potrebbe essere a ragione tacciata di trasformismo. Senza trascurare gli effetti che una linea del genere potrebbe avere in Lombardia, Liguria, Veneto e Friuli Venezia Giulia, dove il centrodestra governa unito e i pentastellati fanno una dura opposizione.

I nodi verranno al pettine in autunno, quando bisognerà presentare la Legge di stabilità. Il Ministro dell’Economia, Giovanni Tria, difficilmente potrà allargare i cordoni della borsa. Lì potrebbero esplodere le contraddizioni tra le promesse fatte in campagna elettorale dai grillini e quelle fatte dai leghisti. Molte di esse sono palesemente inconciliabili e potrebbero produrre la rottura del patto di governo.

Infine sul futuro della Lega e di Salvini pende sempre la spada di Damocle dell’inchiesta sui fondi al Carroccio e sui 49 milioni di euro spariti. Come andrà a finire?