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L'ANALISI

L’Iraq muore E non è solo l’Isis a distruggerlo

Tre attentati con un bilancio di almeno 93 morti e quasi 200 feriti. Con il primo, il più terribile, in un mercato affollato nel quartiere di Sadr City. È stata l'ennesima giornata di sangue quella di ieri a Baghdad: la peggiore dall'inizio del 2016. Anno, peraltro, già nerissimo per l'Iraq: il conteggio diffuso dall'Onu già prima delle stragi di ieri parlava di 1.119 persone uccise in episodi violenti a marzo e altre 741 ad aprile. 

Esteri 12_05_2016
Attentato a Sadr City, in Iraq

Tre attentati diversi con un bilancio complessivo di almeno 93 morti e quasi 200 feriti. Con il primo - il più terribile - in un mercato affollato nel quartiere di Sadr City. È stata l'ennesima giornata di sangue quella di ieri a Baghdad: la peggiore dall'inizio del 2016. Anno, peraltro, già nerissimo per l'Iraq: l'immancabile conteggio diffuso dall'Onu (l'unica cosa che ormai le Nazioni Unite riescono a fare in Medio Oriente) già prima delle stragi di ieri parlava di 1.119 persone uccise in episodi violenti a marzo e altre 741 ad aprile. 

A colpire è sempre l'Isis che tutti continuano a definire indebolito, ma nelle ultime settimane ha riguadagnato terreno in Siria e in Iraq va avanti a uccidere. A Baghdad ieri ha colpito nel posto più annunciato: Sadr City, il distretto popolare sciita un tempo noto come Saddam City e ribattezzato nel 2003 con il nome dell'ayatollah Mohammad Sadeq al-Sadr, fatto uccidere quattro anni prima dal presidente iracheno per stroncare la rivolta degli sciiti. Un “martire” che è poi anche il padre di quel Moqtada al-Sadr che - dopo essere stato la spina nel fianco degli americani - oggi si è riciclato come l'uomo più amato dalle piazze sciite a Baghdad. Nonché l'ispiratore, non più di due settimane fa, dell'occupazione “dimostrativa” del Parlamento iracheno da parte dei suoi sostenitori, in quella che è sembrata a tutti la prova generale di un golpe.

Se c'era un posto oggi dove dare una mano a far implodere da solo il già inconcludente sistema politico iracheno era proprio Sadr City. L'Isis mostra di avere tutto l'interesse a veder precipitare del tutto il Paese nelle mani delle milizie sciite, facendo piazza pulita di ogni parvenza rimasta di istituzioni a Baghdad. Del resto non è un mistero che lo scontro finale tra sciiti e sunniti - eterna riedizione della storica battaglia di Kerbala, combattuta nell'anno 680 ad appena un centinaio di chilometri da Baghdad - sia il finale preferito della sceneggiatura che da due anni il sedicente Califfato sta cercando di scrivere tra la Siria e l'Iraq.

Di tutta questa storia ciò che colpisce di più è l'indifferenza con cui il versante iracheno del grande caos mediorientale viene seguito oggi dall'opinione pubblica mondiale. Su Baghdad non ci sono nemmeno le polemiche infuocate che sui social network accompagnano ogni notizia in arrivo dal fronte siriano: l'Iraq non se lo fila più nessuno. Troppo scomodo da ricordare, anche perché sono tanti lì gli scheletri nell'armadio; e non tutti nelle stesse stanze. Molto meglio, quindi, provare a dimenticare che è tutto è cominciato lì; che su quelle rovine è nata la guerra per procura tra Arabia Saudita e Iran per il controllo del Medio Oriente, a cui le primavere arabe hanno offerto solo la più ghiotta delle occasioni. E che la fallimentare gestione della transizione nel dopo Saddam ha messo in circolo il settarismo che sta uccidendo un'area del mondo che va ormai da Sana'a fino a Istanbul.

L'Iraq ormai è alla bancarotta politica: c'è un Parlamento che da settimane non riesce a darsi un governo mentre per strada i morti sono centinaia. In piazza si protesta contro la corruzione dilagante - alimentata dallo sfascio generale - salvo poi invocare come “salvatore” il leader spirituale di una delle forze che siedono in quello stesso Parlamento. Il tutto mentre ipocritamente nelle cancellerie si continua a parlare dell'offensiva contro l'Isis come se uno Stato a Baghdad ci fosse ancora. L'unico ad alzare la voce e a non rassegnarsi alla morte del Paese è il patriarca caldeo Raphael Sako. La voce di chi - nei giochi degli apprendisti stregoni che vagheggiavano la tripartizione tra sciiti, sunniti e curdi spingendo tutti nel baratro - ha perso di più. La voce di una comunità cristiana decimata a Baghdad e poi cacciata via nel 2014 anche da Mosul e dalla piana di Ninive e tuttora esule a Erbil, in Kurditsan. 

«È già un miracolo che tutto funzioni nonostante queste esplosioni e la confusione, ma la gente è stanca e perde la pazienza», ha denunciato nuovamente ieri intervistato dalla Radio vaticana il patriarca Sako. «È per questo che abbiamo bisogno di azioni concrete per mettere fine a questa tragedia, a questa fuga dei cristiani, ma anche degli altri». 

Azioni concrete che possono però arrivare solo se il mondo si deciderà una buona volta a mettere al centro il futuro degli iracheni. «I Paesi perseguono i propri interessi, non prendono in considerazione anche quelli di questi popoli», ha ripetuto ieri ancora una volta Sako. «Queste guerre durano da anni; e dopo l’Isis verrà un altro problema». Un ritornello amaro per provare ancora a scuotere le coscienze di chi ha distrutto un Paese e ora fa finta di non sapere. Mentre dopo oltre venticinque anni di guerre, embarghi e affari più o meno limpidi, in Iraq si continua a morire.