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GUERRA E LETTERATURA/IX

Montale, “le notti chiare” e la speranza nell’oscurità

La poesia «Valmorbia» è testimonianza di un momento di tranquillità e di serenità, quasi di smemoratezza nella mente di Montale. come se Montale volesse, invece, volontariamente trovare un riparo dalla crudezza e dalla violenza della realtà vissuta e questo riparo fosse proprio il mondo della letteratura e della lingua.

Cultura 07_01_2018

Nelle scuole l’unica voce poetica italiana studiata riguardo all’esperienza della Grande guerra è solitamente quella di Ungaretti. Di rado si leggono le poesie di Clemente Rèbora. Sconosciuto o quasi è l’unico componimento che il maggior poeta italiano di pieno Novecento, Eugenio Montale, dedica al conflitto, intitolato «Valmorbia». 

Nato a Genova nel 1896, Eugenio Montale si diploma in ragioneria e poi si forma da autodidatta, come tanti grandi poeti del Novecento. Montale confesserà ormai anziano all’amica Annalisa Cima: «Non appartengo ai paradisi artificiali di Palazzeschi, né agli inferni lussuriosi di Ungaretti; sono un uomo che ha vissuto al cinque per cento. Appartengo al limbo dei poeti asessuati e guardo al resto del mondo con paura». È «uomo del non – possesso, della fantasia resa realtà, è corso sino alla fine verso immagini che materializzava o, meglio, verso persone che smaterializzava». 

Parte per la guerra a soli diciannove anni, arruolato nel 23° fanteria a Novara. Dopo aver frequentato il corso allievi ufficiali e aver chiesto di essere inviato al fronte, dall’aprile del 1917 diventa Sottotenente del 158° fanteria Brigata Liguria in Trentino. A Vallarsa prende parte a numerose azioni militari. Confesserà più tardi in un’intervista: «Non ho memoria di quella guerra. Ritengo che sia stato un errore l’intervento. Quanto ai miei ricordi si confondono: io ho cercato di spiegare a Parise come è la guerra. Secondo lui uno che va in guerra non deve sparare. Capita invece che chi è dentro una battaglia non abbia affatto il senso della violenza, che non se ne accorga, che non sappia insomma che cosa sta facendo».

Tornato dalla guerra, pubblica nel 1925 la prima raccolta Ossi di seppia e dal 1929 al 1938 diventa direttore del Gabinetto scientifico letterario G. P. Vieusseux. Nel 1948 inizia la collaborazione con «Il Corriere della Sera» e scrive la terza raccolta La bufera e altro (1956), dopo Le occasioni (1939). Nel 1962 sposa Drusilla Tanzi, che ha conosciuto nel 1927 e con cui convive dal 1939. Drusilla muore nel 1963 lasciando un profondo dolore nella vita di Montale di cui è testimonianza la quarta raccolta che esce dopo tanti anni, quella Satura (1971) che è in gran parte dedicata alla donna amata. Il valore della sterminata produzione di Montale che attraversa gran parte del secolo scorso viene consacrato prima dalla nomina a senatore a vita (1967), poi dal Premio Nobel per la letteratura (1975), conseguito sei anni prima della morte (1981). 

Riportiamo di seguito l’unico componimento che Montale dedica esplicitamente alla memoria della Grande Guerra, entrato a far parte della prima raccolta Ossi di seppia:

Valmorbia, discorrevano il tuo fondo 

fioriti nuvoli di piante agli àsoli. 

Nasceva in noi, volti dal cieco caso, 

oblio del mondo.

Tacevano gli spari, nel grembo solitario 

non dava suono che il Leno roco. 

Sbocciava un razzo su lo stelo, fioco 

lacrimava nell’aria.
 

Le notti chiare erano tutte un’alba 

e portavano volpi alla mia grotta. 

Valmorbia, un nome — e ora nella scialba 

memoria, terra dove non annotta.

Per comprendere meglio i versi ripensiamo agli avvenimenti verificatesi alla fine del giugno del 1916 a Vallarsa, nel Trentino. Il 28 giugno, spentasi l’offensiva austriaca, gli Italiani vogliono contrattaccare giungendo a Trento il più velocemente possibile. Scelgono l’opzione di passare per Valmorbia, frazione di Vallarsa. Il 72° reggimento fanteria (Brigata Puglie) raggiunge verso sera il Valmorbia Wer, che appartiene al sistema di fortificazioni che collega Riva del Garda agli altopiani di Folgaria e di Lavarone. 

Ricorderà Montale nell’intervista rilasciata a Manlio Cancogni: «In basso c’era un fiume, il Leno; la valle si chiamava Valmorbia, noi però si stava a mezza costa, fra le rocce, perché il fondo era inabitabile, vi si rovesciava un po’ di tutto, rocce, sassi, fango, schegge, bombe, cadaveri, muli […]. Per me i ricordi più indimenticabili sono quelli di certe notti, nella buona stagione, che passavo sdraiato sull’ingresso della mia grotta. Con la luna sembrava che la valle salpasse. In basso sentivo il Leno che mormorava, roco. Sbocciava un razzo, lacrimava nell’aria. Udivo un trepestio insolito, un odore acre mi pizzicava il naso: erano delle volpi venute a farci visita; così, senza accorgersene, si arrivava all’alba».

La poesia «Valmorbia» è testimonianza di un momento di tranquillità e di serenità, quasi di smemoratezza nella mente di Montale. Può essere paragonata, in un certo senso, al componimento «I fiumi» di Ungaretti. 

La forma metrica si avvale di tre quartine. In un contesto letterario come quello dei primi decenni del Novecento, caratterizzato dagli influssi del Futurismo e da un’eversione nei confronti della tradizione letterario-artistica, il poeta mostra uno sforzo di ritorno all’ordine dopo le avanguardie storiche dei primi decenni del secolo. 

La prima quartina apostrofa direttamente Valmorbia, in cui i soldati si sentono presi da un’improvvisa smemoratezza della guerra, della morte, delle atrocità che accadono. Non compare una dimensione religioso-sacrale come quella ungarettiana de «I fiumi», qui il caso cieco sembra trascinare gli umani, volti da un’incomprensibile destino. Colpisce quell’espressione «nuvoli di piante agli àsoli», particolarmente ricercata e distante dal proposito di Montale di raggiungere l’espressione assoluta, scevra di qualsiasi filtro o posa retorica.

Nella seconda quartina colpisce la descrizione di quell’aria irreale, in cui tacciono gli spari e si può udire il rauco suono del torrente Leno che con fatica si ritaglia il suo percorso fino ad immettersi nell’Adige.

Al silenzio si unisce, nell’ultima quartina, la luce notturna della luna piena, che appare come un’alba, che illumina il cammino della volpe. Il poeta collegherà per sempre Valmorba a quella luce che non si spegne, a quella segreta speranza che la guerra possa finalmente finire e che la luce della vita possa tornare a brillare ovunque.

Le poesie di Ungaretti e di Rebora dedicate alla guerra sono più immediate e più dirette, più concrete e dirompenti, meno inclini all’uso dell’espressione alta e letteraria, come se Montale volesse, invece, volontariamente trovare un riparo dalla crudezza e dalla violenza della realtà vissuta e questo riparo fosse proprio il mondo della letteratura e della lingua. Colpisce questo fatto, soprattutto in un autore come Montale che avrà come l’intenzione di arrivare alla verità oltre l’apparenza. Scriverà in Intenzioni (Intervista immaginaria, 1946): «Un velo sottile, un filo appena mi separava dal quid definitivo. L’espressione assoluta sarebbe stata la rottura di quel velo, di quel filo: una esplosione, la fine dell’inganno del mondo come rappresentazione. Ma questo era un limite irraggiungibile».