Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi

GENOVA

Moschee aperte e bocche chiuse nell'islam genovese

Un'iniziativa del quotidiano Secolo XIX e alcuni centri islamici di Genova, mira a far conoscere moschee e centri culturali ai cittadini, contro la paura. Ma un giornalista è entrato in quelle moschee, ha parlato con i fedeli e i responsabili. E vi ha trovato tutt'altro che apertura e tolleranza.

Editoriali 16_12_2015
Musulmano in preghiera

In concomitanza all’apertura della Porta Santa del Giubileo, a Genova il Secolo XIX e alcuni centri islamici del capoluogo ligure hanno lanciato l’iniziativa “Moschee Aperte” per “promuovere lo scambio interculturale”. Gli organizzatori hanno annunciato che “il 13 e il 20 dicembre, le sale di preghiera della città apriranno le loro porte a tutti coloro che vorranno visitarle” e che “tutto si svolgerà in un clima informale tra chiacchiere, tè verde alla menta, pasticcini, focaccia e piatti preparati dalle comunità arabe”.

Una possibilità di incontro con lo scopo di trasmettere serenità e speranza ai cittadini genovesi, di fare dimenticare gli orrori perpetrati dal Califfo dello Stato Islamico e di fare conoscere l’altro islam. Una prima obiezione: gli organizzatori sono certi che la maggior parte dei musulmani residenti a Genova e dintorni non solo frequenti, ma si riconosca in quei luoghi di preghiera? Una seconda obiezione: gli organizzatori, la cui buona volontà è indubbia, hanno riflettuto sul fatto che la moschea non è una chiesa, che un imam non è un sacerdote e che non esiste un unico islam, ma tanti modi di essere musulmani e di vivere una religione che non ha un’autorità, ovverosia un Papa? 

La problematicità dell’islam è confermata da un articolo pubblicato su Il Termometro Politico in cui Piotr Zygulski narra, con molta semplicità e candore, il suo viaggio nell’islam genovese e i suoi incontri con i responsabili delle moschee/sale preghiera coinvolte nella prima domenica dell’iniziativa “Moschee aperte”. Le dichiarazioni raccolte presso la Masjid Assalam (letteralmente “moschea della pace”) confermano la posizione rigida e conservatrice del luogo e dei suoi gestori. D’altronde basterebbe aprire la pagina Facebook della moschea e ci si imbatterebbe in una fotografia che ritrae una donna con il niqab, il velo integrale, e la seguente frase: “Sorella, quando sei pudica, gli occhi degli uomini provano vergogna nei tuoi confronti”, il tutto accompagnato dalla nota di chi ha postato l’immagine che ribadisce: “Che Allah vi custodisca, figlie dei musulmani. Amen”. Poco più sotto un video in cui il Gran Mufti saudita ‘Abd al-‘Aziz bin ‘Abd Allah Al Shaykh - che ha emesso una fatwa contro lo Stato Islamico, ma ha anche emesso una fatwa in cui afferma la necessità di distruggere tutte le chiese costruite nella Penisola Arabica -  risponde alla domanda se sia lecito augurare ‘Benedetto venerdì’ in occasione del giorno festivo per i musulmani. Ebbene la risposta del Gran Mufti è chiara ed è tradotta in italiano nei sottotitoli: “E’ un’innovazione […] certo è un venerdì benedetto in quanto Dio ce l’ha donato e ha sviato da esso i cristiani e gli ebrei. Fare questo augurio ogni venerdì è un’innovazione.” Questo video viene ripreso dal profilo Invito al Corano e alla Sunna i cui contenuti sono chiaramente vicini al wahhabismo.

Le testimonianze raccolte nella Moschea Assalam confermano l’impostazione rigida che antepone il diritto islamico e la sharia alla legge italiana tanto che “un uomo di mezza età mostra poi il disappunto nei confronti di chi, con la scusa del terrorismo, ha vietato il velo integrale, burqa e niqab, addirittura negli ospedali.” Affermazione che dimentica le posizioni di molti stati islamici che hanno, proprio per motivi di sicurezza, limitato e talvolta vietato l’uso del velo integrale, e che dimentica che il velo integrale, a detta di molti teologi musulmani, non è un obbligo. Non solo, ma alla domanda su dove fossero le donne, la candida risposta è stata: “Purtroppo la nostra sala di preghiera non è ancora attrezzata per le donne, qui non possono entrare.” Probabilmente non sarebbe potuta entrare nemmeno una donna genovese.

Il secondo luogo è quello che ospita il Centro Culturale del Centro Storico dove, come attesta la fotografia pubblicata nell’articolo, campeggiano due manifesti: il primo reca la scritta "No al terrorismo, sì alla pace”, il secondo – che sembra quasi contraddire la pace appena nominata – illustra “Etica e Comandamenti del Profeta Muhammad (s) in guerra”, ammettendo quindi quanto la biografia ufficiale di Maometto (la “sira”) conferma con pagine e pagine di narrazioni, ovvero che Maometto fu anche un capo politico e militare, ma omettendo che tutte queste regole riguardavano chiunque non opponesse resistenza, basti pensare alla triste sorte delle tribù ebraiche a Medina. Quindi nel momento in cui la comunità islamica si sente attaccata è autorizzata a opporre resistenza anche armata, seppur con regole prestabilite. Un ambiente comunque più aperto del precedente e più legato alle istituzioni religiose genovesi tanto da meritare la visita del vescovo ausiliario Nicolò Anselmi, in occasione dell’avvio del Giubileo della Misericordia, che si auspica abbia chiara la differenza tra la misericordia cristiana e quella coranica (rahma) che corrisponde più all’italiano “grazia” in quanto è un beneficio che Allah accorda agli uomini, un bene che viene fatto loro assaporare in alternanza ai mali che loro infligge. 

L’itinerario prosegue in vico Fregoso al Centro Culturale Khalid ibn Walid dove il giornalista raccoglie giustificate frecciate nei confronti dell’Arabia Saudita che non conferisce pari dignità alla donna e dove si ricorda la differenza tra islam e cristianesimo nella visione di Gesù laddove per l’islam è un Profeta, ma è figlio di Maria e non di Dio. E’ curioso però che a Genova non ci sia mai domandati chi sia Khalid ibn Walid e che nessuno durante gli incontri aperti alla cittadinanza abbia mai posto la domanda. Costui visse all’epoca di Maometto e fu uno dei principali protagonisti delle conquiste islamiche, noto per la ferocia, tanto da essere e da essere soprannominato la “spada di Allah.” Fu lui l’eroe delle guerre contro l’apostasia durante il breve regno del primo califfo Ben Guidato Abu Bakr.

Dal canto suo il Centro Culturale Assadaqa in via Prè offre ai passanti datteri e pizza, ma al giornalista offre anche pubblicazioni tra cui una di Hasan al-Banna, fondatore dei Fratelli musulmani a cui si ispirano alcune realtà dell’islam organizzato italiano, che può essere considerato l’iniziatore dell’islam politico in epoca contemporanea e colui che ha riportato il jihad tra i doveri del musulmano. 

Tutto questo percorso tra le vie del centro genovese, tra i “caruggi” delle sale di preghiera dimostra quanto poco si conosca quel che viene predicato, quanto poco si conoscano i personaggi della storia islamica, ma soprattutto quanto poco si conosca il sostrato culturale dei musulmani che vivono in Italia. Un’iniziativa lodevole e in buona fede quella del Secolo XIX, ma che identifica il musulmano con il musulmano praticante e frequentante una sala di preghiera, laddove le preghiere quotidiane obbligatorie possono essere svolte a casa propria, laddove la maggior parte dei musulmani non frequenta i luoghi di preghiera pur essendo e sentendosi profondamente legato alla propria fede e non attende l’imam di turno prima di decidere il da farsi. Un’iniziativa che affianca il dialogo interreligioso ufficiale con l’unica aggiunta di un the alla menta e qualche dattero, ma che si affida alle stesse persone e agli stessi ambienti. Purtroppo si è ancora ben lontani dalla vera conoscenza del mondo islamico con le sue lingue, con le sue letterature, con la sua musica, con la sua cucina, conoscenza che non è certamente riducibile all’aggettivo islamico e a una identità islamica, tantomeno a una sala di preghiera in cui magari non sono ammesse donne o è intitolata alla “spada di Allah”.