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i criteri per distinguere

Per il mondo arcobaleno ogni critica è un insulto

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Gli alfieri del linguisticamente corretto assimilano ogni distinguo verso determinate categorie a offesa e discriminazione. Ma il confine c'è e a fissarlo non è la percezione soggettiva, né ideologica.

Editoriali 13_03_2024
IMAGOECONOMICA - MARCO CREMONESI

All'inizio di febbraio sul marciapiede antistante della sede del Gay Center di Roma sono comparse scritte che lo stesso centro omosessuale ha definito «omobitransfobiche». Altri epiteti sono stati pronunciati a voce e scritte simili sono apparse altrove dopo questo raid.

Se questa incursione è ovviamente da censurare, viene però da chiedersi quale sia il confine tra giusta critica ed insulto, dato che per le realtà LGBT e, più in genere, per gli alfieri del linguisticamente corretto ogni critica verso alcune categorie di persone presentate come socialmente fragili (omosessuali, transessuali, donne, immigrati, etc.) è essa stessa espressione di una fobia, di un atteggiamento discriminatorio. E dunque viene da porsi il seguente quesito: quali criteri morali occorre seguire nell’uso del linguaggio? Per risolvere tale quesito si deve fare riferimento, come per qualsiasi altro quesito di carattere morale, alla triplice fonte della morale naturale.

Partiamo dal mittente del messaggio. Il fine prossimo naturalmente deve essere eticamente lecito. Si può usare ad esempio anche un linguaggio aspro e duro, ricco di epiteti per un fine buono. Nostro Signore qualificò gli scribi e farisei come razza di vipere, ad esempio, per rivelare la loro ipocrisia e stimolarli alla conversione. Tralasciamo il secondo criterio di moralità (il fine secondo o intenzione) perché qui non particolarmente rilevante e passiamo alle circostanze. Tra queste assume rilievo, per la fattispecie in oggetto, sia il contesto (negli anni '70 definire “mongoloide” una persona Down non sarebbe suonato offensivo, oggi sì e ne dobbiamo tenere conto) che il modo e nel modo il criterio di proporzione proprio del principio del duplice effetto (pde).

Articoliamo un paio di esempi. Un ladro entra in casa di Tizio e, una volta scoperto, punta la pistola alla tempia del figlio di Tizio. Quest’ultimo, in astratto, potrebbe lecitamente rivolgersi al ladro come “farabutto” o “malvivente”, perché quei termini rispecchiano la realtà, ma – applicando il criterio di proporzione – questa scelta sarebbe dannosa, ossia prometterebbe più danni che benefici. Il ladro potrebbe arrabbiarsi e sparare. Meglio quindi evitare ed usare altre espressioni. In modo analogo se uso il termine “invertito” mentre mi rivolgo ad una persona omosessuale: l’accezione negativa di questo termine derivata dall’attuale contesto culturale porterebbe immediatamente ad una situazione di conflitto.

Detto ciò, in merito all’uso di termini coniati dal politicamente corretto, nella prospettiva generale di un’azione culturale per avvalorare la verità antropologica, è però errato assecondare l’uso di un lessico non rispettoso della realtà e menzognero in merito alla verità morale. Ossia applicando proprio il pde non si deve cedere all’uso di questa deriva linguistica. E dunque, tanto per esemplificare, occorrerebbe dire che, sul piano descrittivo, un uomo che si crede donna rimane uomo e che, sul piano morale, le condotte omosessuali sono contrarie alla vera dignità delle persone.

Dopo aver analizzato l’agere del mittente sotto il profilo morale, ora analizziamo quello del ricevente, perché anche lui compie un’azione: ascoltare o leggere. Anche per lui vale quanto detto sopra: in particolare viene in evidenza il criterio della circostanza declinato ancora una volta secondo il modus. Se io mi riferisco ad una persona senza una gamba qualificandola come disabile, senza la possibilità di prevedere una sua reazione negativa, e questa s’inalbera, chi sta sbagliando? La persona senza una gamba, perché il suo ascolto è stato viziato da suscettibilità, da irascibilità (modo).  Se io mi riferisco ad una persona senza una gamba qualificandola come disabile, sapendo che questa si arrabbierà, e questa poi s’inalbera, chi sta sbagliando? Dipende e dipende sempre dal fine prossimo e dalle circostanze. Ad esempio se lo dico a mio figlio il quale dopo molto tempo non vuole accettare la sua condizione di persona priva di una gamba, allora potrebbe essere lecito, proprio perché il fine è educativo e gli effetti negativi (lo scatto d’ira) possono essere proporzionati agli effetti positivi ricercati. Se invece lo dico per scherno verso la persona senza una gamba, il fine non è eticamente valido.

Parimenti le scritte presso la sede del Gay Center perseguivano il fine illecito dell’insulto, mentre invece i cartelloni di ProVita che fanno capire che il feto è una persona, tendono ad un fine lecito e non sono offensive verso le donne perché mostrano una realtà che il linguaggio, anche quello per immagine, semplicemente rappresenta. L’eventuale percepito offensivo sarebbe un effetto negativo non ricercato e assolutamente di minor peso rispetto ai benefici attesi. Un eventuale sentimento di offesa sarebbe poi ingiustificato perché risentirsi a motivo di una scelta propria criticata perché oggettivamente immorale non può trovare valido fondamento. Ciò proverebbe che il criterio del percepito soggettivo non può e non deve essere il criterio esclusivo che regola la nostra libertà espressiva. Infatti l’errore sarebbe nell’occhio di guarda, non nell’immagine guardata.



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