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IL PUNTO

Quell'equivoco su scomunica e perdono

Dietro all'incredibile travisamento delle parole del Papa sta un equivoco ormai ricorrente: in un periodo in cui domina la retorica dei muri da abbattere, ogni limite posto dalla Chiesa è letto come un ostacolo alla Grazia (vedi intervento di mons. Galantino). Ma per la Chiesa non è mai stato così.

Ecclesia 23_11_2016
Monsignor Galantino

È un’esperienza straniante leggere Misericordia et Misera e poi leggere gli articoli o ascoltare i servizi radio tv che ne parlano e la spiegano all’opinione pubblica. Si fa davvero fatica a capire come si possa travisare così il contenuto della Lettera del Papa, al punto che il messaggio che arriva alla gente è così radicalmente diverso dal testo che chiunque può leggere (cosa però che faranno in pochissimi).

Bisogna però riconoscere che ormai giornali e opinione pubblica si aspettano sempre dal Papa la prossima spallata all’edificio dottrinale della Chiesa; è un pregiudizio che inficia all’origine qualsiasi cronaca o analisi. Chi in Vaticano si occupa di comunicazione sarebbe il caso che si facesse qualche domanda al proposito: se questo effetto non è voluto, come mai accade? Prendersela con l’ignoranza o la malafede dei giornalisti non è più una scusa, è evidente che c’è dell’altro. Non a caso ieri un giornale chiedeva al cardinale Walter Kasper, dopo aver sistemato l’aborto quale sarebbe stata la prossima spallata del Papa e lui ovviamente ha risposto con l’agenda dei prossimi mesi.

Resta il fatto che sulla Misericordia et misera si è andati oltre ogni misura, e non solo sull’aborto. Bisogna ad esempio riconoscere a papa Francesco di avere spiegato che non è lui ad avere scoperto che Dio è misericordia. Ha infatti citato diversi passi della Liturgia che dimostrano come la Chiesa da sempre e continuamente riconosce e chiede la Misericordia di Dio. Ha anche ricordato come a questo argomento Giovanni Paolo II abbia dedicato la sua seconda enciclica (Dives in Misericordia, in verità piuttosto dimenticata in questo anno giubilare), e come lo stesso Giovanni Paolo II abbia istituito la Festa della Divina Misericordia e abbia canonizzato suor Faustina Kowalska.

Sicuramente papa Francesco ha fatto di questo il centro della sua missione pastorale, ma tanto fracasso come se tre anni fa fosse iniziata una nuova Chiesa dopo secoli di bastonate e porte chiuse è piuttosto ridicolo oltre che lontano dal vero. C’è chi gioca su questo equivoco perché ne approfitta per liquidare la Chiesa e chi cade nelle esagerazioni tipiche dei “leccacalze” (così il Papa nell’ultima intervista a Tv 2000 ha definito i suoi adulatori). E quest’ultima categoria, tutta interna alla Chiesa, è anche quella che sta contribuendo al travisamento della Lettera apostolica.

Prendiamo ad esempio il titolo di apertura di ieri di Avvenire: “Misericordia sempre”. Come a dire che fino a Francesco la misericordia era qualche volta. Oppure che misericordia vuol dire assolvere sempre e senza condizioni. Ma tutte e due sono menzogne e sicuramente non corrispondono a quanto leggiamo nella Lettera del Papa: la necessità del pentimento e il proposito di non commettere ancora l’«orrendo peccato» sono ben presenti. C’è poi una fantasiosa Lucetta Scaraffia, che è coordinatrice del mensile “Chiesa donne mondo” allegato all’Osservatore Romano, che in una intervista rilasciata al Corriere della Sera, afferma addirittura che con questa Lettera «la donna smette di essere considerata la “grande peccatrice” secondo una certa tradizione». Chissà se la Scaraffia, a proposito di donne e aborto ha mai letto la Evangelium Vitae (senza considerare che comunque se l’aborto resta «un grave peccato» qualcuno che pecca ci dovrà pur essere).

C’è però in effetti una questione che rimane sullo sfondo ma che è il punto centrale, un equivoco che ritorna e che spinge a certe chiavi di lettura: il valore da dare ai limiti che la Chiesa ha sempre posto. In questi tempi di retorica sui muri da abbattere qualsiasi limite, qualsiasi confine – anche quello che separa il bene dal male, il pentimento dall’ostinazione e dalla superbia – è visto come un intollerabile ostacolo all’azione di Dio. È la stessa questione attorno a cui gira il discorso della comunione ai divorziati risposati.

Nel caso specifico dell’aborto, la scomunica (che peraltro resta) e il rinvio al vescovo o a un suo delegato, sono percepiti come un muro nei confronti di chi vuole riconciliarsi. È ad esempio la spiegazione che dà il segretario della Conferenza Episcopale Italiana, monsignor Nunzio Galantino, nel suo commento di ieri su Il Sole 24 Ore. Spiegando che neanche chi si pente di un peccato grave come l’aborto può rimanere «senza l’abbraccio del suo perdono», così prosegue: «Se si comprende che non dev’esserci ostacolo alla possibilità di riconciliazione, allora non si fatica ad accogliere la bontà della concessione ora estesa nel tempo a tutti i sacerdoti, perché assolvano quanti hanno posto fine a una vita innocente». 

Insomma, scomunica e rinvio a penitenzieri specifici, per monsignor Galantino sono ostacoli alla possibilità di riconciliazione. È un’affermazione grave, perché contraddice ciò che la Chiesa ha sempre insegnato. Leggiamo Evangelium Vitae no. 62:

«La disciplina canonica della Chiesa, fin dai primi secoli, ha colpito con sanzioni penali coloro che si macchiavano della colpa dell'aborto e tale prassi, con pene più o meno gravi, è stata confermata nei vari periodi storici. Il Codice di Diritto Canonico del 1917 comminava per l'aborto la pena della scomunica. Anche la rinnovata legislazione canonica si pone in questa linea quando sancisce che «chi procura l'aborto ottenendo l'effetto incorre nella scomunica latae sententiae», cioè automatica. La scomunica colpisce tutti coloro che commettono questo delitto conoscendo la pena, inclusi anche quei complici senza la cui opera esso non sarebbe stato realizzato: con tale reiterata sanzione, la Chiesa addita questo delitto come uno dei più gravi e pericolosi, spingendo così chi lo commette a ritrovare sollecitamente la strada della conversione. Nella Chiesa, infatti, la pena della scomunica è finalizzata a rendere pienamente consapevoli della gravità di un certo peccato e a favorire quindi un'adeguata conversione e penitenza».

La scomunica dunque non solo non è un ostacolo alla riconciliazione ma addirittura è la strada più diretta perché questa avvenga e sia piena. E stessa funzione aveva il rinvio al vescovo o a suoi delegati, non era un iter burocratico come qualche altro esegeta ha voluto dire ieri. Peraltro lo stesso Giovanni Paolo II aveva già provveduto a una maggiore disponibilità di sacerdoti per confessare questo peccato, ma mantenendo quella norma che non è affatto un muro, un ostacolo. Tutt’altro. Ciò che a monsignor Galantino evidentemente sfugge è che un peccatore cosciente del proprio peccato e seriamente pentito non desidera mettersi a posto la coscienza in qualche modo e più in fretta possibile, ma desidera anzitutto la grazia di una vera conversione che si traduce tra l’altro nella disponibilità a un cammino penitenziale adeguato. 

Si può comprendere quindi il timore di chi ritiene – tra gli altri il presidente del Movimento per la Vita Gian Luigi Gigli – che questa decisione del Papa possa tramutarsi in una banalizzazione del peccato di aborto, soprattutto in un contesto sociale e politico che lo sta tramutando in un diritto umano. In discussione non è tanto l’intenzione del Papa quanto l’ignoranza, la superficialità, la negligenza di tanti preti – e come abbiamo visto, vescovi – che già oggi trattano in modo inadeguato chi si reca in confessionale. E certo, le reazioni di questi giorni non aiuteranno ad accogliere correttamente quanto il Papa indica nella Misericordia et Misera.