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San Luigi Maria Grignion di Montfort a cura di Ermes Dovico
ORA DI DOTTRINA / 97 – Il supplemento

Rendere grazie sempre, segno di una fede piena

La gratitudine a Dio è legata direttamente alla fede. Ogni cosa buona che abbiamo ci viene da Lui. San Giuseppe Cottolengo insegnava ad avere l’espressione Deo gratias sempre sulle labbra e nel cuore. E non solo nel bene, ma anche nelle prove.

Catechismo 31_12_2023

Se domenica scorsa, in occasione dell’imminente solennità della Natività di Nostro Signore, abbiamo fatto una digressione dal nostro percorso storico sulle gravi crisi che hanno scosso la Santa Chiesa nella sua storia, quest’oggi appare d’obbligo dedicare una riflessione sull’anno solare che sta per terminare e sul tradizionale canto del Te Deum.

Deo gratias è l’espressione che san Giuseppe Cottolengo voleva che si avesse sempre sulle labbra e nel cuore. Un altro santo, grande estimatore e imitatore del Cottolengo, san Luigi Orione, sapeva molto bene che questa profonda e radicata gratitudine verso Dio non poteva che scaturire da un uomo strabordante di fede. Per questo, don Orione diceva del Cottolengo che aveva più fede lui da solo che tutta la città di Torino messa insieme

Ma perché il rendimento di grazie avrebbe a che fare con la fede? Non bastano un’indole ilare e una minimale educazione religiosa? Iniziamo dalle occasioni più ovvie per ringraziare… e capiremo che così ovvie non sono. «Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché te ne vanti come non l'avessi ricevuto?» (1Cor 4, 7). Se san Paolo si trovava a dover rimbrottare così i cristiani di Corinto quasi duemila anni fa, significa che il problema è ben più diffuso e radicato di quanto si immagini. E questo problema radicale si chiama orgoglio, che è la manifestazione più alta della stupidità umana.

In effetti, che cosa mai abbiamo che non ci sia stato dato? Chi di noi può vantare di essere egli stesso l’artefice esclusivo della propria fede, della propria intelligenza, dei propri beni materiali, dei propri affetti, della propria vita? Non c’è nulla di bene in noi, che non ci sia stato elargito da Dio; un Dio che però molto spesso ama donare nascondendosi dietro persone, fatti, realtà. E qui entra la fede, luce mattinale che ci fa scorgere con sicurezza quel Dio che ama agire “in incognito”. Il rendimento di grazie per ogni cosa buona diventa allora il termometro della fede. E dobbiamo tristemente constatare che proprio noi cristiani siamo diventati per lo più indifferenti verso quel diluvio di grazie, naturali e soprannaturali, con cui Dio ci benefica ad ogni istante. Indifferenza che portò Nostro Signore a manifestare la sua tristezza: «Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato chi tornasse a render gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?». Ed è lo stesso Signore che collega il rendimento di grazie del lebbroso samaritano alla fede: «Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!» (Lc 17, 17-19).

Il samaritano, pieno di fede e di gratitudine; noi, invece, indifferenti, e persino nauseati, sempre in cerca, come siamo, di novità ritenute più interessanti e di promesse di “paradisi terrestri” migliori di quello che Dio prepara per noi. Questa indifferenza, questo orgoglio, questa pretesa autosufficienza sono gli esiti di una fede debole, ormai agonizzante.

Il Cottolengo non ha però insegnato a ringraziare “solamente” di fronte al bene, riconosciuto come tale, ma sempre, in ogni circostanza. Se dunque è una grande fede quella che porta a riconoscere Dio, elargitore di ogni bene, una fede enorme perpetua il ringraziamento anche nelle situazioni dolorose e difficili. E non lo fa in quanto già vede il bene nascosto dietro una prova, ma perché crede fermamente che quel bene ci sia. E lo crede perché Dio è Padre. Non mancano le lacrime, non mancano i sospiri, non manca la tenebra, ma non manca neppure la fede. Nel famoso e stupendo Addio ai monti, nel capitolo ottavo de I Promessi Sposi, Lucia, in fuga con Renzo da don Rodrigo, viene strappata repentinamente da tutti i suoi affetti e, tra i singhiozzi, conclude così i suoi pensieri: Dio «non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande». È la fedeltà di Dio che permette di essere grati nel bel mezzo di una prova che ci prostra e sembra annientarci.

C’è una sfumatura ulteriore di questa fede che ringrazia nella prova e che libera dalla grande tentazione di indurire il cuore: rendere grazie a Dio prima di vedere la “vittoria”. Anzi, ogni volta che il male appare sempre più trionfante, la fede fa innalzare più certo il canto di ringraziamento, perché vede già la vittoria di Dio sui suoi nemici. Un trionfo tanto più glorioso quanto più il male appare invincibile. È sempre di grande consolazione leggere e rileggere il libro dell’Apocalisse, unendosi ai cori trionfanti delle schiere celesti che già cantano la condanna della «grande prostituta» (Ap 19, 2), già si rallegrano del «suo fumo che sale nei secoli dei secoli» (Ap 19, 3). Non si tratta di un’insensibilità al presente che nasce dalla fuga dalla realtà; si tratta invece dell’effetto della fede che inizia a farci considerare le vicende umane dal punto di vista dell’eternità.

Quando la luce eterna prende possesso delle nostre facoltà, allora tutti questi “livelli” di rendimento di grazie si riassumono in un unico e semplice atto: grátias ágimus tibi, própter mágnam glóriam tuam – ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa. Questa gloria che emana da Lui stesso e si rende presente in ogni cosa, questa gloria che è Lui stesso, è la ragione strabordante per rendere grazie sempre. L’azione di grazie diviene così più semplice e inamovibile, perché non guarda più alle circostanze, ma resta fissa in Dio stesso. Per questo la Chiesa non può fare cosa più preziosa di esortare ogni giorno i suoi figli ad elevare i loro cuori e rendere grazie a Dio «sempre e in ogni luogo», semplicemente perché azione degna e giusta.

Per questo, anche quest’anno, nessuna tenebra, nessuna paura, nessuna prova, nel mondo e nella Chiesa, potranno anche semplicemente scalfire il canto di rendimento di grazie che si eleva dalle labbra di chi non vede altro che «i cieli e la terra sono pieni della tua gloria» (Sanctus e Te Deum).



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