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GOVERNO

Renzi in Europa, fini condivisibili mezzi inadeguati

Il premier ha inscenato un grande spettacolo a Strasburgo, dando a credere che il semestre europeo a guida italiana sarà decisivo per le sorti del nostro Paese. Non è così, e il premier lo sa. Altri sono i problemi da affrontare.

Politica 05_07_2014
Matteo Renzi

Il semestre di presidenza delle istituzioni dell’Unione Europea, che i 28 Stati membri dell’Unione assumono a turno, è di ben poca se non di nulla importanza effettiva. Fa notizia (eventualmente) solo nel Paese interessato, ma non più. D’altra parte, sarebbe strano il contrario considerando che si riduce al semplice fatto che il Paese presidente di turno, dunque l’Italia in questo secondo semestre 2014, presiede tutti gli incontri collegiali. Ogni incontro a qualsiasi livello ha avuto un presidente greco nello scorso semestre; ne avrà uno italiano nel semestre corrente; uno lettone  nel primo semestre 2015 e via così.

Nondimeno Matteo Renzi, che è un grande comunicatore, cogliendo al volo la fortunata concomitanza fra l’inizio del “semestre italiano” (così come lo si chiama solo da noi) e l’inaugurazione del rinnovato Parlamento europeo. Lo scorso 2 luglio è andato a Strasburgo a fare un discorso (oggi accessibile a chiunque grazie a “youtube”) che poi una stampa adorante si è incaricata in Italia di raccontare come una specie di pendant del famoso discorso che egli fece a Roma quando esordì come premier recandosi in Senato a chiedere la fiducia per il suo nuovo governo. Diciamolo subito chiaro: non è affatto così. D’altra parte, basta andarsi a riascoltare le parole con cui il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz ha presentato Renzi all’aula per rendersene conto.

Il fatto che l’Italia sia presidente di turno non cambia nulla rispetto agli orientamenti e agli obiettivi da lui espressi in tale sede. Gli strumenti di cui dispone per conseguirli sono gli stessi che il nostro Paese aveva fino al 30 giugno 2014 e che avrà dal 1° gennaio 2015 in avanti. La concomitanza di cui si diceva ha offerto a Renzi una grande ribalta, e lui l’ha usata da par suo, ossia molto bene. Tutto qui.  Ciò premesso e chiarito, va anche subito aggiunto che il premier ha fatto a Strasburgo un discorso di denso contenuto che va molto al di là delle battute del tutto secondarie (come quella citatissima del “selfie”) di cui si è tanto scritto. È un discorso che per quanto ci riguarda sottoscriviamo in toto: dalla rivendicazione dell’eredità della Grecia e di Roma cristiana quali fondamenti dell’Europa alla definitiva emancipazione dell’Italia dall’ingiustificato complesso d’inferiorità nei confronti di “Bruxelles” e degli altri principali membri dell’Unione nonché alla sottolineatura del dovere di coniugare stabilità e crescita.

D’altra parte, anche i grandi obiettivi che Renzi indica nei discorsi programmatici che fa in Italia sono pienamente condivisibili. Il problema si apre quando si passa dal campo dei fini a quello dei mezzi. Tutto l’arsenale di cui dispone la cultura politica lato sensu laburista del Partito democratico e dei suoi alleati conduce fatalmente a risultati opposti a quelli che Renzi annuncia. Anzi, nella maggior parte dei casi nemmeno conduce da qualche parte, quale che sia, bensì semplicemente impedisce la minima modifica dello status quo. Per conseguenza l’economia non smette di rallentare e le imposte continuano a crescere. 

In una situazione del genere, se al governo ci fosse Berlusconi le piazze sarebbero già piene di dimostranti e gli editoriali dei grandi quotidiani già pieni di ingiurie e di appelli allo sfratto dell’inquilino di palazzo Chigi. Siccome c’è Renzi, che comunque (per loro) è… “uno di noi”, per adesso l’Italia che sta in scena piange a bocca chiusa. Paradossalmente Renzi sembra fare lo stesso cruciale errore del primo Berlusconi: confidando troppo sulla propria popolarità non si sta affatto costruendo la macchina rigorosamente organizzata di competenze, di idee, di esperienze e di esperti senza la quale le ambiziose riforme che annuncia resteranno certamente sulla carta. D’altra parte, come si diceva, il retroterra del Partito democratico è una pessima miniera di risorse del genere.

È un problema di uomini, ma prima ancora appunto è un problema di idee. Facciamo il caso decisivo della riforma della pubblica amministrazione e di una riforma della pressione fiscale volta alla sua rapida e consistente decrescita. Tutta l’esperienza moderna dimostra che le imposte sono basse e la qualità della pubblica amministrazione è alta non dove si moltiplicano le norme e i controlli bensì dove chi è responsabile e decide sulla spesa è responsabile e decide anche sul prelievo fiscale. E dove i vari ambiti di governo sono in concorrenza tra loro, ovvero dove chi riesce a spendere meno può anche premiare i propri amministrati riducendo loro le imposte. Si veda ad esempio il caso del federalismo svizzero.  

Renzi invece da un lato lancia appelli alla responsabilità e all’iniziativa personali, ma poi dall’altro mira a un generale riaccentramento nelle mani del governo centrale di tutte le funzioni politiche di qualche rilievo con una cavalcata contro ogni forma di autonomia locale o funzionale che va dall’abolizione delle amministrazioni provinciali elettive a quella del Senato elettivo passando per i tagli all’autonomia regionale, la riduzione della Camere di Commercio a una per ogni regione e così via. Quel che si dice una manna per la burocrazia centrale dello Stato e per la sua sperimentata voracità. E frattanto strizza l’occhio a movimenti distruttivi di tutto ciò che ancora resta di solido nella società civile annunciando novità legislative come innanzitutto le “unioni civili”. Un malaugurato progetto che, senza dare alcun necessario sostegno ai problemi patrimoniali ed emotivi degli interessati, nella misura in cui si dovesse attuare andrebbe a corrodere l’identità della famiglia, ossia della chiave di volta della società civile stessa. C’è qualcosa che si può fare per aiutarlo a non distruggere ciò che dice di voler costruire?