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JIHAD

Sinai, l'anarchia jihadista all'origine della strage

Sufi, coscritti e beduini della tribù Sawarkah, fedele al governo. Sono queste le vittime dell'ultimo attentato jihadista nella moschea di Bir al Abed. Il Sinai è, dal 2011, un crocevia di traffici illeciti gestiti dai beduini, spesso reclutati dalla "Provincia" del Sinai del Califfato. Una zona fuori controllo, nonostante gli sforzi di Al Sisi.

Esteri 26_11_2017
Materiale catturato ai jihadisti nel Sinai

Una moschea frequentata da adepti del sufismo (la versione mistica dell’islam), coscritti delle forze armate e beduini della tribù sawarkah, i cui capi l’estate scorsa hanno dichiarato la loro disponibilità alla piena collaborazione con le autorità egiziane nella lotta ai traffici criminali e alle organizzazioni terroristiche che infestano la penisola del Sinai. I motivi della strage senza precedenti che ha colpito il villaggio di Bir al-Abed, nel nord-ovest del Sinai, sono riuniti in questa carta d’identità del luogo di preghiera assalito.

Grande quasi come l’Irlanda, il Sinai è abitato da un milione e 400 mila di abitanti, più della metà dei quali sono concentrati nella fascia nord-occidentale a ridosso di Port Said, Ismailia e Suez. Dal febbraio 2011 la regione è investita da un’insurrezione islamista cominciata nella parte nord-orientale con attentati contro il gasdotto che serve Israele e la Giordania e proseguita con attacchi alle forze di sicurezza. L’organizzazione terroristica si è data il nome di Ansar Bait al-Maqdis, che significa Gruppo dei sostenitori di Gerusalemme, ed è composta di palestinesi, egiziani e beduini. Affiliata ad Al Qaeda, nel novembre 2014 l’organizzazione è confluita nell’Isis, col nome di Vilayat Sinai, cioè Provincia (sottinteso: del Califfato) del Sinai. All’inizio ha operato soprattutto a ridosso del confine con Gaza, partecipando ai traffici illegali attraverso le centinaia di tunnel scavati sotto il confine. La decisione del governo di al-Sisi di reprimere i traffici clandestini fra Gaza e il Sinai ha spostato l’azione dei terroristi verso occidente, nella zona della città di al Arish.

 La presenza di beduini nei ranghi di questa affiliata egiziana dell’Isis si spiega col fatto che i beduini, popolazione indigena del Sinai, da sempre sono ostili all’amministrazione egiziana, che considerano una specie di forza di occupazione coloniale, e in buona parte sono dediti a ogni genere di commercio illegale: armi, droga, tratta dei migranti. Elementi delle tribù del Sinai settentrionale hanno aderito alle successive ondate di organizzazioni jihadiste sia a causa della marginalizzazione economica e sociale dei beduini di fronte agli immigrati egiziani nella penisola (i beduini non sono ammessi nei ranghi della polizia e dell’esercito, non possono rivendicare diritti fondiari e sono tagliati fuori dall’industria turistica), sia per potere continuare a gestire i lucrosi traffici criminali di cui sono esperti. Grazie alla conoscenza del territorio della sua componente beduina, il gruppo terrorista–la cui consistenza dovrebbe essere di 1.000-1.500 elementi- in questi sei anni si è dimostrato capace di abbattere elicotteri delle forze armate egiziane, assalire caserme e commissariati di polizia, tendere imboscate a reparti dell’esercito, uccidere centinaia di soldati e poliziotti. All’inizio di quest’anno si è dedicato pure ad omicidi mirati di immigrati egiziani nel Sinai di religione cristiana copta, sia per la motivazione ideologica di purificare il territorio da ogni presenza non islamica, sia per la ragione propagandistica di attirare militanti: la coptofobia è un riflesso molto diffuso fra le masse povere dei musulmani egiziani, inclini a credere che i cristiani copti sono una minoranza di ricchi privilegiati complici del governo militare, che dissanguano la maggioranza islamica. La logica della purificazione religiosa ha guidato senz’altro anche l’attacco di ieri a Bir al-Abed. Stavolta i jihadisti non hanno colpito i copti ma i sufi, e non è affatto una novità: nel corso di quest’anno Vilayat Sinai ha sequestrato e filmato la decapitazione di due ulema sufi, (uno dei quali, Sulaiman Abu Haraz, ultranovantenne) accusati di “stregoneria”. I sufi e i loro santuari sono diventati bersaglio di attacchi subito dopo le rivoluzione della cosiddetta Primavera araba, man mano che la componente islamista radicale prendeva il controllo dei moti rivoluzionari. Decine di luoghi di culto sono stati attaccati e distrutti in Egitto, Libia e Tunisia.

L’attentato di ieri mira evidentemente a delegittimare il governo di Abdelfattah al-Sisi, intenzionato a candidarsi alle presidenziali del 2018, dimostrando che non è in grado di proteggere le sezioni della popolazione egiziana che gli estremisti prendono a bersaglio. I sufi in Egitto sono circa 15 milioni: per i loro attacchi i terroristi hanno solo l’imbarazzo della scelta, che si estende agli 8-10 milioni di cristiani copti.  

Non è una novità nemmeno il fatto che le tribù beduine collaborazioniste siano diventate un bersaglio dei terroristi. L’Isis stessa dichiara di avere ucciso 500 collaborazionisti, 200 dei quali decapitati, in questi anni. Nel maggio scorso i leader della tribù tarabin hanno diffuso una dichiarazione in cui affermavano: «Siamo decisi a sbarazzarci di coloro che bruciano, uccidono e rubano nel nome della religione, di coloro che indossano maschere e portano fucili, pagati da entità straniere che sono nemiche dello Stato egiziano». La dichiarazione era stata poi sottoscritta dai leader di altre quattro tribù, fra cui quella dei sawarkah.

Non c’è nessun dubbio sul fatto che le autorità egiziane condurranno violente rappresaglie come risposta alla strage senza precedenti di ieri. Già alcuni componenti del gruppo di fuoco di Bir al-Abed sono stati intercettati ed eliminati da droni dell’esercito e da task force. Ma c’è da temere che verranno inflitte anche forme di punizione collettiva.