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DERIVA

Spazio ai laici: parrocchia senza parroco. Torino apripista

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A Torino il vescovo affiderà le parrocchie ad équipe di laici. Pericolosa deriva che clericalizzerà i laici enfatizzando il sacerdozio universale a discapito di quello ordinato. Facendo così fioccare le derive liturgiche, teologiche e pastorali. 
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Ecclesia 22_07_2023
L'arcivescovo di Torino, Repole

Uno degli aspetti più sorprendenti tra quanto si vede nella Chiesa attuale è una sorta di soddisfazione perché la crisi permetterebbe di mettere in moto l’immaginazione e di liberarci da tante strutture chiuse, ritornando alla “freschezza” del Vangelo. Non ci sono più preti? Non si pensa ad un impegno per averne di nuovi e di santi, ma lo si considera uno stimolo alla conduzione delle parrocchie da parte dei laici. Le parrocchie sono in difficoltà? Ecco una occasione provvidenziale per superare la loro impostazione “chiusa”. Molti parlano con compiacimento di una Chiesa ridotta al lumicino, fatta di piccole comunità familiari, completamente “in uscita”. Di solito richiamano a loro sostegno la famosa previsione di Ratzinger del 1969, quella delle piccole comunità creative, prendendola non come una triste previsione ma come un auspicio.

Questo atteggiamento ha un lato molto negativo. Non permette nessun esame di coscienza, non si chiede i motivi della crisi delle vocazioni o della difficoltà ad incontrare i giovani. Non considera che in certi seminari, invece, le vocazioni ci sono e non si chiede perché lì ci sono. Spesso, anzi, ci si lamenta che in certi seminari i seminaristi siano “troppi”. Non considera le parrocchie fiorenti perché i sacerdoti che le guidano sono santi e ben radicati nella dottrina e perché i laici fanno i cristiani senza bisogno di alcun “ministero” specificamente creato. Il giudizio di essere “chiuse” viene attribuito senza distinzione a tutte le parrocchie, mentre nella realtà ad esserlo sono proprio quelle impostate sulla “comunione” tanto cara ad un certo progressismo teologico. Non si chiede nemmeno i motivi della crisi di fede, perché per questa visione, appunto, la crisi di fede sarebbe provvidenziale, uno stimolo per l’invenzione creativa di nuovi stili di vita.

Qui notiamo un altro punto preoccupante: il rinnovamento avverrebbe tramite l’invenzione di nuove modalità organizzative, la disponibilità tutta umana e soggettiva ad aprirsi e a rinnovarsi, il distacco da presunte inutili nostalgie. Le ideologie religiose che si insinuano in questa “apertura” non vengono messe in bilancio, perché l’apertura al nuovo e l’abbandono delle forme chiuse diventa un imperativo pastorale e quindi anche dottrinale. In tutto questo trova scarso spazio la considerazione dei pericoli per la salvezza delle anime, la preoccupazione per le difficoltà nell’amministrare i sacramenti. L’interesse è tutto incentrato sulle capacità delle comunità a rinnovarsi negli stili di vita che possono finalmente diventare più evangelici, come se le preoccupazioni per la salvezza delle anime e per i sacramenti non fossero evangeliche. Capita così che una parrocchia in cui il sacerdote passa una volta ogni tanto a consacrare le particole e tutto viene gestito da un gruppo di laici incaricati dalla diocesi è considerata una opportunità, una apertura migliore della vecchia e stantia parrocchia “chiusa” e per niente estroversa. Che la nuova parrocchia così impostata sia più protestante che cattolica non interessa.

Queste considerazioni nascono a seguito della lettera pastorale diffusa dall’arcivescovo di Torino e Susa Roberto Repole che contiene una serie di “indicazioni di stile”, come dice lui, ma che è un vero e proprio piano di lavoro, come la interpretiamo noi. Questo piano riguarda il necessario rinnovamento della vita delle chiese locali a seguito della diminuzione del numero dei preti e dell’invecchiamento dei fedeli. Per l’arcivescovo non si deve “tirare avanti” ma prendere la crisi come una opportunità per presentare la vita dei cristiani come più avvincente e coinvolgente. Il punto centrale è che il “governo” della parrocchia verrà affidato ad un gruppo di laici, che rimarranno in carica cinque anni dopo aver frequentato un corso, almeno biennale, presso l’istituendo Istituto per la formazione dei laici. Il governo delle parrocchie dove non potrà più essere presente il sacerdote, verrà quindi condotto da un “gruppo ministeriale a tempo” – per favorire l’avvicendamento, scrive l’arcivescovo –, composto da almeno tre persone.

Tutti vedono le difficoltà, le contraddizioni e i pericoli di una simile impostazione. Il primo è che il progetto nasce a Torino, ma ha tutte le caratteristiche per aprire una porta generalizzata sul futuro, ben oltre Torino. Il vescovo Repole, voluto in quella sede da Francesco e teologo progressista molto convinto, è la persona giusta per un esperimento/precedente come questo.

L’iniziativa toglierà energie alla pastorale vocazionale presbiterale perché tanto le parrocchie andranno avanti lo stesso e forse meglio. Nell’intento di snellire le strutture finisce per complicarle: corsi di formazione, istituzione di nuovi ministeri laicali, designazione dei gruppi di laici, loro avvicendamento quinquennale e così via. Il compito dei laici – è sempre stato detto – è di ordinare a Dio le cose temporali mentre in questo modo li si “clericalizza”. Infine, il pericolo maggiore: una enfatizzazione poco cattolica del sacerdozio universale rispetto a quello ordinato, che evidentemente sta dietro queste innovazioni, spingerà queste esperienze verso esiti incompatibili con la dottrina soprattutto in campo liturgico, celebrazioni della parola guidate da laici camuffate da Santa Messa, come sta avvenendo in vari luoghi d’Europa.