Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
COMUNISMO CINESE

Taiwan si sente un Paese indipendente

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Gli ultimi sondaggi rivelano che i taiwanesi non si sentono più cinesi e non sono d'accordo con l'accordo del Consenso del 1992 che fissa il principio di un unico paese (pur con due sistemi). La Cina non accetterebbe mai una proclamazione di indipendenza. Si addensano nubi per il 2024, l'anno delle elezioni.

Esteri 21_04_2023 English
Manifestazione pro Taiwan e pro Hong Kong per l'arrivo di Tsai Ing-wen negli Usa

Dopo la fine delle minacciose esercitazioni cinesi, Taiwan si sente sempre più lontana dalla Cina continentale. Lo rileva un sondaggio effettuato dalla Taiwanese Public Opinion Foundation, come riporta l’agenzia Asia News. In vista delle elezioni del 2024, questo sentimento anti-Pechino si sta traducendo in un sempre maggiore consenso per il Partito Democratico Progressista (Pdp) che attualmente esprime la presidente Tsai Ing-wen.

Due i quesiti interessanti: il primo è se gli intervistati siano d’accordo con l’ex presidente nazionalista Ma Ying-jeou che, nel suo viaggio in Cina, di fronte al mausoleo dedicato al padre della Repubblica Sun Yat-sen, ha pronunciato la frase “siamo tutti cinesi”. Ebbene, solo il 16% dei taiwanesi si dice d’accordo, almeno in parte. E appena il 7% dichiara di sentirsi cinese. Il 42% non è d’accordo con Ma e il 25% dissente “in qualche modo”. Il secondo quesito interessante riguarda il Consenso del 1992, che definisce i principi dei rapporti fra Pechino e Taipei. Attualmente solo il 22,5% è d’accordo, mentre il 67% è ormai contrario.

L’accordo fra l’allora governo nazionalista (del partito Kuomintang) e il regime comunista cinese, è quello in base al quale si è legittimato l’equivoco con cui le due parti intendono la “Cina”. Per il Kuomintang, quello nazionalista è l’unico governo legittimo, per Pechino l’unico è il regime comunista. L’accordo, apparentemente assurdo, serve a ribadire il principio dell’Unica Cina, dell’unità nazionale, almeno formale. Sulla carta, sia la Repubblica Popolare che Taiwan sono lo stesso Paese, anche se ognuno mantiene il proprio sistema politico ed economico, capitalista e democratico Taiwan, comunista la Repubblica Popolare. Se il 67% dei taiwanesi si dice contrario, vuol dire che la maggioranza si vede ormai come una nazione indipendente.

Infatti, in un precedente sondaggio della Taiwanese Public Opinion Foundation, risulta che il 78% dei taiwanesi ritiene di non essere cinese. Solo il 9,1% dichiara di essere sia cinese che taiwanese. E ancora meno, il 7,7% dichiara di essere cinese. A giudicare dalla tendenza, fino al 1995 (l’anno della prima grave crisi dello stretto di Taiwan), la maggioranza si sentiva sia cinese che taiwanese. Poi si registra una brusca prevalenza di chi si ritiene solo taiwanese. Il momento di massimo sentimento nazionale indipendente si è raggiunto nel 2020, in concomitanza con il Covid. E si può anche capire perché: il governo di Taiwan, per primo, aveva lanciato l’allarme per quel che stava accadendo a Wuhan e Pechino ha di fatto obbligato l’Oms a non ascoltarlo. Durante la pandemia, l’isola è stata fra quelle che ha meglio gestito la crisi, registrando il minimo di mortalità e di impatto sull’economia. Ma, sempre per ordine di Pechino, è stata esclusa da tutti i forum internazionali e ha dovuto letteralmente arrangiarsi da sola.

Chiaramente, pur esprimendo una sempre più marcata identità nazionale, la stragrande maggioranza (il 76,6%) è a favore di un rilassamento della tensione nello Stretto. Realisticamente, il 58,6% pensa che gli Stati Uniti appoggino l’isola per i propri interessi, anche quando questi non coincidono con quelli di Taipei. Ma in ogni caso, il 61% concorda con la politica di contenimento della Cina da parte degli Stati Uniti, anche se perseguita nel nome degli interessi di Washington.

È difficile capire quanto queste opinioni si tradurranno in consensi per il prossimo candidato alla presidenza del Pdp. A novembre infatti, la sinistra è stata sconfitta in modo netto nelle elezioni amministrative e Tsai Ing-wen, per questo, non si ricandiderà nel 2024. Ma i consensi per il partito, se guidato dal vicepresidente Lai Cing-te, crescono. Attualmente, Lai batte Hou Yu-ih (possibile candidato del Kuomintang) 36% a 25%. Le elezioni saranno di un’importanza estrema, per tutti, non solo per l’Asia orientale.

Accogliendo trionfalmente l’ex presidente Ma e condannando il viaggio di Tsai in America, la Cina è già, di fatto, entrata in campagna elettorale. Esprime una preferenza netta per il Kuomintang, che, dal punto di vista di Pechino, garantirebbe maggiormente lo status quo. Tsai è invece giudicata dai comunisti come un’indipendentista pericolosa. Paradossalmente, Pechino vuole un vecchio nemico nazionalista al comando dell’isola “ribelle”, ritenendo più pericolosa la nuova sinistra. Xi Jinping ha avvertito numerose volte, negli ultimi anni, che una dichiarazione formale di indipendenza porterebbe alla guerra. L’ultima volta, in ordine di tempo, la settimana scorsa, quando ha dichiarato che l’indipendenza taiwanese e la pace nello Stretto si “escludono a vicenda”.

Ma il principio dell’Unica Cina, come dimostrano anche questi sondaggi, non ha più senso. È ormai anacronistico. A Taiwan hanno visto come si è comportato il regime di Pechino, non solo durante il Covid, ma anche, l’anno prima, come ha omologato Hong Kong, senza rispettare i patti con il Regno Unito, che prevedevano piena autonomia ancora fino al 2047. Accettare un’unificazione di fatto, oltre che quella formale, significherebbe la fine di ogni libertà per Taiwan. Questo i cinesi che vi abitano lo sanno bene, ormai. E quindi, cosa accadrà nel 2024? Fra l’altro sarà anche l’anno delle elezioni presidenziali americane e con la polarizzazione fra il fronte di Trump e quello di Biden, la Cina cercherà di sfruttare eventuali disordini elettorali, come quelli del 2020. Senza l’appoggio statunitense, Taiwan non avrebbe speranze. Il finale è aperto, la partita è tutta da giocare.