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MEDIO ORIENTE

Terza Intifada, una lotta fra due popoli senza speranza

Alla fine, a furia di invocarla, la Terza Intifada in Israele è scoppiata per davvero. Ed è più estesa di quanto non sembri. Non c'è angolo di Medio Oriente che non sia coivolto dalle violenze. La comunità internazionale è sostanzialmente disinteressata al problema. E il conflitto riguarda due interi popoli, che si sentono privati del loro futuro.

ANKARA, IPOTESI DI UNA STRAGE di S. Magni

Esteri 11_10_2015
Terza Intifada

A furia di evocarla l'intifada è arrivata davvero. Ammesso che abbia ancora un senso utilizzare quest'espressione oggi a Gerusalemme. Perché - nonostante le apparenze - l'ondata di violenze che da ormai una settimana sta scuotendo non solo la Città Santa, ma tutto Israele e la Palestina, è ancora più grave di quelle che già abbiamo visto.

Le analogie con lo scenario del 2000 ci sono è vero. Anche questa carneficina, ad esempio, è cominciata dal solito posto, la spianata delle Moschee che è allo stesso tempo il monte del Tempio per gli ebrei. È cominciata quando - come accade ormai sempre più di frequente - in occasione del capodanno ebraico e delle successive festività molti ebrei nazionalisti sono saliti a pregare sulla spianata rendendo la famosa passeggiata di Sharon semplice acqua fresca (il tutto nonostante teoricamente sia ancora in vigore un divieto rabbinico che espressamente lo vieta e che a Gerusalemme aveva limitato gli attriti per anni). Con il governo Netanyahu uscito dalle ultime elezioni il peso specifico degli ambienti della destra nazionalista è aumentato. E così quest'anno la sicurezza israeliana ha deciso che era ora di togliere di mezzo i gruppi organizzati di uomini ma anche donne arabe che accoglievano con urla e battibecchi gli ebrei sulla spianata. Solo che quando i militari sono intervenuti sulla spianata hanno trovato ad aspettarli giovani palestinesi con molotov e fuochi d'artificio e sono cominciati gli scontri al grido di «al Aqsa minacciata». Eravamo a metà settembre e come in un piano inclinato la situazione è cominciata a precipitare; così in meno di un mese siamo arrivati a uno scenario che vede la Città Vecchia di Gerusalemme in stato di guerra, tra accoltellamenti ai danni di israeliani e polizia che spara a qualsiasi palestinese si avvicini alla porta di Damasco. Ma la situazione è ormai in fiamme in tutta la Cisgiordania, a Gaza, ma anche - fatto particolarmente preoccupante per il governo israeliano - a Giaffa, a Nazareth, a Ramle cioè in tutte le città dove vivono gli arabi israeliani, la minoranza che nel 1948 rimase a vivere entro i confini dello Stato di Israele internazionalmente riconosciuto e che oggi rappresenta più di un quinto della popolazione israeliana. 

Le notizie di scontri si rincorrono di ora in ora da una parte all'altra del Paese ed è impossibile tenere un bilancio aggiornato delle vittime da una parte e dall'altra. Ma stiamo comunque parlando - complessivamente e solo negli ultimi giorni - di una decina di assalti all'arma bianca da parte di palestinesi contro israeliani (il più delle volte ebrei ultra-ortodossi o militari, assalti in quattro casi rivelatisi mortali), di una ventina di palestinesi uccisi e centinaia di feriti negli scontri con l'esercito israeliano (ma - in più di un caso - anche solo per il semplice fatto di essersi avvicinati troppo a un posto di blocco), di assalti violenti da parte gruppi di coloni impegnati in «ritorsioni» contro il primo arabo che incontrano, di razzi sparati da Gaza (che quando la situazione si infiamma non mancano mai).

A colpire è l'estensione degli scontri: non c'è angolo di Israele e della Palestina tranquillo in queste ore. Ma a preoccupare è soprattutto la situazione generale in cui questa esplosione di violenza si colloca. Israele risponde con la forza all'insurrezione palestinese, con una dichiarazione folle il sindaco di Gerusalemme ha spronato tutti a girare armati. Ma questo non fa altro che peggiorare la situazione con un clima di isteria collettiva che lascia mano libera alle frange dell'estremismo ebraico. Le stesse che con le loro violenze - comprese quelle contro le chiese e le istituzioni cristiane o l'incendio di case come quello costato la vita all'intera famiglia Dawabsheh non più di qualche settimana fa - hanno contribuito a esasperare le tensioni.

Oggi come al solito va in scena il solito rito delle accuse incrociate tra le leadership politiche di Israele e della Palestina. Ma il punto vero - ed è la novità sostanziale di questa nuova intifada - è che né a Gerusalemme né a Ramallah c'è qualcuno in grado di controllare il proprio campo. Dopo le pietre, i kamikaze sugli autobus, i muri, i missili e i sistemi antimissile, siamo alla guerra del corpo a corpo, dove anche un cacciavite diventa un'arma. E quale sistema di sicurezza è in grado di fermare uno scontro del genere?

È l'ultimo stadio di un conflitto che ha perso centralità nell'attenzione delle cancellerie internazionali: sono anni che di Israele e della Palestina non si occupa più nessuno se non Benedetto XVI prima e papa Francesco adesso. Per il mondo - con tanti altri focolai accesi - quest'area non è più così importante: basti vedere l'assoluto mutismo messo in scena dai grandi della Terra in queste ultime settimane. Ma questo atteggiamento fa diventare ancora più pericoloso quanto sta accadendo a Gerusalemme. Perché là dove non c'è la politica a incanalare verso un orizzonte le proprie rivendicazioni, c'è posto solo per l'odio allo stato puro. Ed è un odio che in Israele non coinvolge più solo chi sta dall'altra parte del muro, ma una minoranza che vive dentro la propria società (e che comprende anche 160 mila cristiani). 

Il problema non sono solo Hamas o i neo-zeloti del movimento Lehava. Il problema sono due popoli ormai privati di ogni speranza nel futuro. E quindi pronti a tutto. Ma quando non hai più nulla da perdere diventano sempre molto difficili da fermare le intifade.