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LA POLEMICA

Trump parla da tifoso contro lo sport politicizzato

Ennesimo scandalo: Trump avrebbe parlato male dei giocatori di football americano. Ma è vero? E' da un anno che, per la polemica contro il razzismo, i giocatori protestano mettendosi in ginocchio al suono dell'inno. Trump se l'è presa con la politicizzazione dello sport, come un qualunque tifoso.

Sport 26_09_2017
La protesta di Kaepernick

Ogni volta che il presidente Donald J. Trump parla la cosa più triste è dover correggere le asinate che la stampa diffonde gongolando dell’ennesima occasione per sbattere il mostro in prima pagina. Quella più noiosa ‒ diciamocelo francamente fra non-antitrumpiani ‒ è vedere che a foraggiare gli asini è sempre lui, Trump. In sé, il commento alla vicenda degli atleti statunitensi che s’inginocchiano per sbeffeggiarlo durante l’inno nazionale che precede le partite finirebbe qua. Ma così asini e asinate resterebbero inevasi, e quindi il commento prosegue.

Lo sfottò degli atleti a stelle e strisce ha un annetto. Cominciò il 26 agosto 2016 Colin Kaepernick, che all’epoca militava nei San Francisco 49ers di football americano: all’esecuzione dell’inno, prima dell’amichevole in casa contro i Green Bay Packer del Wisconsin, rimase svaccato sulla panchina invece di alzarsi con la mano sul cuore. Negli Stati Uniti è una cosa imperdonabile. Sarà per questo che quest’anno il quarterback è senza contratto. All’epoca Kaepernick, che è nero, spiegò il gesto dicendo: «Non starò in piedi per dimostrare il mio orgoglio per la bandiera di un Paese che opprime i neri e la gente di colore». Era la stagione dei neri morti ammazzati dalla polizia per le strade e di Black Lives Matter. Tanto è bastato per farne un simbolo, imitato dai molti che hanno preso a inginocchiarsi in segno di sconforto, frustrazione e prostrazione all’indirizzo di Trump, accusato di essere il capobastone dei razzisti. L’antefatto delle parole infiammanti pronunciate dal presidente degli Stati Uniti venerdì 22 settembre durante un comizio al Wernher von Braun Center di Huntsville, in Alabama, è questo. Del profluvio di reazioni sia negli Stati Uniti sia in Europa fra atleti (anche di basket) e showmen (come il cantante Stevie Wonder sopra un palcoscenico di New York) ha dato cronaca per due giorni il mondo intero.

Perché tanto strepito? Perché ad Huntsville venerdì Trump avrebbe dato agli atleti protestatari dei «son of a bitch», ovvero “figli di cagna” laddove in inglese “cagna” è usato come in analoga frase italiana si usa un sinonimo un tantino più volgare di “scrofa”.

Solo che la realtà è diversa. In un discorso durato un’ora e venti minuiti in cui ha parlato di tutto, dalla Corea del Nord a Hillary Clinton passando per il senatore John McCain (che notoriamente lui non ama), Trump a un certo punto non l’ha mandata a dire a nessuno e, in risposta alle proteste degli sportivi, ha detto: «Non vi piacerebbe vedere uno dei patron della National Football League che quando qualcuno manca di rispetto alla nostra bandiera dicesse: “Buttate fuori dal campo quel figlio di cagna adesso, fuori! Licenziato! Licenziato!"». Ovvero Trump ha detto ad alta voce quello che tutti pensano, ma che nessuno ha il coraggio di dire.

Da quando, il 16 ottobre 1968, i due velocisti statunitensi Tommie Smith e John Carlos salirono sul podio delle Olimpiadi di Città del Messico con il pugno chiuso avvolto in un guanto nero come i Black Panther (che non erano esattamente un collegio per educande) lo sport è diventata una scusa per giocare sempre meno e parlare sempre troppo. Ma non va bene. Così fa chi strumentalizza. Così chi confonde il Milan con Forza Italia.

Ora, di fronte a questo abuso Trump è entrato nella testa dei tifosi, anzi nella loro pancia, e come sempre ci è riuscito benissimo pronunciando le esatte parole di qualsiasi redneck che si rispetti, di qualunque colore abbia la pelle, davanti ai propri beniamini sportivi che invece di spendersi tutti in campo fino all’ultima goccia di sudore e di sangue gigioneggiano, si trastullano, concionano non richieste filippiche politiche. Ma la gente allo stadio non va per questo. Va con gli amici, la fidanzata o i figli per vedere la bellezza sublime di uno scontro incruento che dev’essere sempre giocato come se non ci fosse un domani, che dev’essere divertimento e ricreazione per tutti, che è uno spettacolo vero per uomini, donne e famiglie. Per questo al football, al basket negli Stati Uniti s’inizia con l’inno. Perché la partita è di tutti, una cosa bella da americani veri comunque la si pensi politicamente, tanto poi ci pensa il lunedì a divedere la gente anche in politica. Ecco perché risuonano le note di Star-Spangled Banner, la bandiera sventola, tutto lo stadio batte come un cuore solo e chi non è della partita (appunto) è un fuori posto, uno spostato, un marpione che si fa strapagare per imporre agli spalti le proprie ubbie. Chi fa così degrada lo sport a panem et circenses, abusando di immagine e fama per irretire il pubblico. Chi disonora non Trump, ma la bandiera del Paese, cioè tutti gli americani, è un manigoldo.

Per questo un americano medio, un sano uomo qualunque prepolitico prima che la politica venga a rovinare tutto con quell’eterna guerra civile fratello contro fratello in cui siamo immersi sempre, un americano sul serio, bianco, nero o a strisce, di destra, di sinistra, di sopra o di sotto che sia, non farebbe altro che fare come ha fatto il presidente a Huntsville: «Buttate fuori dal campo quel figlio di cagna adesso, fuori!». Adesso lo sport ce l’ha con Trump, ma l’unico ad avere capito cosa sia davvero lo sport è Trump. Riguardiamoci Fuga per la vittoria e capiremo meglio.

Resta il fatto che l’unico vero vizio di Trump è la sua virtù migliore. Dire ad alta voce quello che tutti pensano, ma che nessuno ha il coraggio di dire. Perché sì, un presidente degli Stati Uniti dovrebbe dar di fioretto, stiletto e non detto invece che sbracare. L’unico premio di consolazione è ricordare che alla Casa Bianca avrebbe potuto esserci Hillary Clinton a farci rimpiangere le parolacce di Trump.

Per la cronaca, al comizio di Huntsville Trump venerdì è andato per sostenere la candidatura al Senato di Luther Strange che corre per il seggio lasciato vacante dalla nomina di Jeff Sessions a Guardasigilli. Le elezioni si svolgeranno il 12 dicembre, oggi si decide invece lo spareggio tra i due primi classificati alle primarie Repubblicane del 15 agosto: Strange, appunto, e Roy Moore, il primo forte del 32,83% dei suffragi, il secondo del 38,87. Il primo sostenuto da Trump, il secondo dall’ex braccio destro del presidente Steven K. Bannon, dal ministro dell’Edilizia e dello Sviluppo Urbano Ben Carson (nero) e da Phil Robertson, protagonista della serie tivù politicamente scorretta Duck Dynasty. Il primo uomo di establishment, il secondo gran conservatore famoso per avere perso nel 2003 il posto di presidente della Corte Suprema dell’Alabama essendosi rifiutato di abbattere il monumento ai Dieci Comandamenti eretto davanti al palazzo degli uffici giudiziari federali dello Stato, a Montgomery (quand’era giudice di circuito il Decalogo lo teneva appeso in tribunale tra le isterie dei liberal), salvo essere rieletto alla guida del massimo tribunale dell’Alabama nel 2003. Lì Moore ha continuato a vietare i “matrimoni” LGBT nonostante dal 26 giugno 2015 una legge federale imponga il contrario. Vinca il migliore, cioè lui.