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CHARIMENTI

Un referendum che fa acqua e frena lo sviluppo

La legge che si vorrebbe abrogare
non privatizza affatto l'acqua, ma cerca di inserire elementi di efficienza nell'amministrazione.

Attualità 07_06_2011
referendum acqua

È in corso un grande tentativo per impedire all’Italia di essere un Paese veramente libero, fondato su una concezione liberale dei rapporti economici e quindi in grado di svilupparsi secondo quei ritmi che furono già suoi sessanta e cinquanta anni fa: si sta tentando di ricreare quel clima sociale e politico che interruppe il nostro rapido sviluppo e portò allo stato semi comatoso nel quale ci troviamo oggi.

L’esempio più clamoroso ci viene dai referendum che saranno votati il 12 e 13 giugno. A cominciare dai due “sull’acqua”. Mettiamo le virgolette perché è stata svolta una ampia campagna di disinformazione che ha portato addirittura a mistificare l’oggetto della consultazione; ed infatti “sull’acqua” è solo il numero due, col quale si vorrebbe impedire che dall’attività di gestione del servizio idrico e dagli investimenti necessari a migliorare la qualità delle reti derivasse un utile, peraltro moderato. Il referendum numero uno è il più importante tra quelli che si svolgeranno: non riguarda solo l’acqua, ma il metodo per l’affidamento dei servizi pubblici che possono essere svolti in modo industriale, cioè, oltre al servizio idrico, i servizi di igiene urbana ed altri di minore importanza. Non è in alcun modo in gioco la proprietà dell’acqua, che in Italia è pubblica a partire dal 1903 (Testo Unico sulle acque) ed è stata confermata tale da successive norme del 1994 e del 2006. Chi dice “No all’acqua privata” è perciò un imbroglione o un imbecille.

Venendo al concreto, la normativa impugnata prevede che l’affidamento di tali attività avvenga attraverso una procedura competitiva (gara) tra i soggetti interessati, che devono avere natura imprenditoriale e adeguate caratteristiche tecnico finanziarie; l’affidamento avverrà a favore di chi presenterà l’offerta migliore. E’ quanto di più logico e corretto si possa immaginare, soprattutto tenendo conto dello stato attuale dei servizi pubblici, generalmente gestiti da soggetti controllati dagli enti locali. Considerato che il soggetto affidante è l’ente pubblico, tale situazione determina una grande confusione tra funzioni di programmazione e controllo, che devono essere proprie della politica, e funzioni di gestione, da affidarsi a soggetto imprenditoriale.

La conseguenza obbligata di questo stato di cose è sotto i nostri occhi: amministrazione confusa ed inefficiente, sprechi, ruberie, personale molto più numeroso del necessario. In particolare per il servizio idrico, la situazione vede un deficit di investimenti di almeno 65 miliardi di euro e perdite per il 47% dell’acqua immessa in tubazione, secondo l’Istat. A quest’ultimo proposito, l’organo di vigilanza del ministero dell’Ambiente ne dichiara il 37,3%, ma è notoriamente inattendibile.

Per concludere, le conseguenze della situazione attuale, in tutta Italia, sono visibili agli occhi di tutti, e si proiettano minacciosamente in un futuro nel quale ogni miglioramento sarà precluso. Per questo respingere questo referendum, con l’astensione o con il voto “no”, è fondamentale per impedire che l’Italia resti distaccata dal consesso delle nazioni sviluppate. Votare “si” significa mantenere infatti nei servizi pubblici gestioni irresponsabili, amministratori incompetenti e voraci, personale numeroso oltre il ragionevole, ruberie di partiti e di persone.

Discorso analogo si può fare anche per il referendum sul nucleare. Il fatto che si svolga nonostante l’abrogazione della legge contro la quale era rivolto la dice lunga sull’ossequio che i magistrati portano alla legge: solo una sentenza cervellotica e prepotente della Cassazione permette che si svolga. Entrando nel merito, al di là di qualsiasi considerazione sulla necessità del Paese di disporre di energia elettrica nella quantità necessaria e a costi definiti, varrà la constatazione dei danni gravissimi determinati dallo sciagurato referendum del 1986; e c’è da chiedersi perché dovrebbe fare l’Italia un passo che né l’Ucraina dopo Chernobyl, né il Giappone dopo Fukushima, hanno ritenuto di dover compiere.