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Usa assenti e Ue incapace di esercitare leadership

Gli ultimi attacchi terroristici in Turchia, Germania e Giordania denotano una situazione di assenza della leadership americana dovuta non solo alla sede vacante del passaggio presidenziale. C’è da domandarsi quanto sangue dovrà ancora scorrere prima che l’Ue si renda conto del ruolo che dovrebbe assumere nella regione euro-mediterranea.

Esteri 21_12_2016

Insieme al quasi contemporaneo massacro terroristico avvenuto a Berlino, e all’attacco in Giordania al castello crociato di Karak e ai turisti che lo stavano visitando, l’assassinio ad Ankara dell’ambasciatore russo in Turchia, Andrej Karlov, viene tragicamente a confermare quanto su una situazione internazionale già assai delicata stia pesando il periodo di “sede vacante” della presidenza americana. Mai prima di oggi i circa due mesi e mezzo che trascorrono negli Usa tra l’elezione del nuovo presidente e la sua effettiva entrata in carica hanno tanto pesato sulle sorti della pace e della guerra nel mondo. Una fragilità ulteriormente aggravata dalla malaugurata concomitanza con la convulsa fase, forse conclusiva, della guerra in Siria.

Sarebbe però un errore credere che ciò si debba all’entità della svolta che implica il passaggio da un presidente come Obama a un presidente come Trump. Fu di grande rilievo  anche  la svolta da George Bush jr. a Obama; eppure il periodo della transizione dall’uno all’altro non ebbe affatto sugli equilibri internazionali l’effetto per così dire “sismico” che il cambio della guardia da Obama a Trump sta facendo registrare. Paradossalmente tanta rilevanza è segno più di debolezza che di forza della super-potenza americana. Finché infatti nessuno poteva permettersi di sfidarla, al passaggio da un presidente all’altro tutto il mondo restava immobile in attesa degli eventi. Ora invece la situazione è cambiata. Pur continuando a non essere sfidabili alla scala planetaria, gli Usa talvolta lo sono alla scala “regionale”. Per chi voglia allora mutare a proprio vantaggio lo status quo di un’area come il Levante, in cui tra l’altro la presenza americana si sta già riducendo, la transizione a Washington da un presidente all’altro diventa un’occasione da non perdere.

E’ questo l’orizzonte complessivo in cui si situano i tragici eventi di questi giorni. Non c’è bisogno in proposito di pensare a una “sala di regìa” da dove qualcuno ha lanciato il segnale di avvio di questa serie di attacchi e di attentati. Nella condizione moderna non c’è bisogno al riguardo di una catena di comando formalmente organizzata: ci sono circostanze, come appunto le attuali, in cui l’ordine di aprire il fuoco viene dato tramite, per così dire, dei “segnali a bandiera” che il sistema massmediatico internazionale riecheggia e diffonde senza rendersene conto, e che armano poi la mano di qualcuno tra i molti che sono stati preparati a riceverlo, e ad agire se possibile di conseguenza.  

E’ ovvio e facile pensare che all’origine dell’attentato all’ambasciatore  russo sia la volontà di bloccare il riavvicinamento in corso tra Russia e Turchia. E’ un’ipotesi fin troppo facile, e d’altra parte era prevedibile che due personaggi come Putin e come Erdogan non sarebbero caduti in una trappola tanto evidente. Putin si è affrettato a dichiarare che l'omicidio dell'ambasciatore russo è "chiaramente una provocazione" mirata a minare i rapporti russo-turchi e "il processo di pace in Siria promosso dalla Russia, dalla Turchia, dall'Iran e da altri paesi”. E Il  ministero degli Esteri turco ha immediatamente condannato il “vile attacco terroristico” aggiungendo che “l'ambasciatore Karlov è stato un diplomatico eccezionale che ha lavorato in un periodo difficile in Turchia e si è guadagnato la stima di tutto lo Stato per le sue capacità personali e professionali”. “Non permetteremo”, si conclude nel comunicato ufficiale al riguardo, “che questo attacco oscuri l'amicizia tra Turchia e Russia”.  Siccome una tale reazione era, dicevamo, ampiamente prevedibile, non si può credere che a questo mirasse chi ha tirato le fila dell’attentato. L’obiettivo era ovviamente più ampio: aggiungere fuoco sotto la pentola già bollente della crisi in corso allo scopo di creare condizioni sempre più favorevoli a un rimescolamento dello status quo del Levante.

D’altra parte, ferma restando l’utilità di tutto ciò che si può fare per la pace nelle condizioni date, non c’è dubbio che a una vera stabilizzazione dell’area si può giungere soltanto affrontando e dando una soluzione a un problema troppo spesso taciuto: in un’epoca nella quale c’è abbondanza di offerta di idrocarburi, e specialmente di gas, rispetto alla domanda dell’Europa, che ne è il massimo importatore alla scala mondiale, la Russia ha oggi un forte interesse ad assicurarsi una posizione privilegiata sul mercato europeo dell’energia.  In tale prospettiva il no nel 2009 della Siria di Bashar Al-Assad alla costruzione di un grande gasdotto, che avrebbe dovuto portare il gas del Qatar e di altri Paesi della penisola arabica fino alle rive del Mediterraneo, ha fatto dell’attuale regime siriano un alleato indispensabile di Mosca.

Se poi si considera che frattanto Assad si era reso disponibile al passaggio sul territorio siriano di un gasdotto che avrebbe portato sulle rive del Mediterraneo gas proveniente dall’Iran non si fatica a capire quanti e quali interessi sia entrati in gioco nella crisi della Siria; e quali siano all’origine della conquista del Nord Iraq da parte dell’Isis. Nessuna pace è possibile se non si arriva a negoziare e a comporre  questi opposti interessi. In quanto grande cliente attuale o potenziale di entrambi questi grandi fornitori  l’Unione Europea è in teoria il miglior possibile mediatore di un tale accordo. L’attuale situazione dell’Unione Europea a guida tedesca purtroppo induce però a ben poche speranze al riguardo. Dopo quanto è accaduto in questi giorni c’è da domandarsi quanto sangue dovrà ancora scorrere prima che l’Unione Europea si renda conto del ruolo che dovrebbe assumere nella regione euro-mediterranea, e di come dovrebbe riorganizzarsi e riorientarsi di conseguenza.